La dura condanna dell’Onu per gli attentati a Damasco
In attesa della lista ufficiale delle autorità, alcuni attivisti hanno pubblicato
i nomi di 11 delle 55 vittime degli attentati ieri a Damasco. Dopo la dura condanna
dell’Onu, oggi anche la Cina critica fortemente la violenza terroristica. Ieri sono
rimaste ferite circa 300 persone e inoltre la risposta repressiva dei militari e della
polizia ha fatto registrare altre vittime – almeno 20 - al centro e nel nord ovest
del Paese. Il servizio di Marina Calculli
"Violenza
chiama violenza e quanto successo a Damasco è una pagina triste e dolorosa di un conflitto
che man mano che passa il tempo diventa sempre più difficile da risolvere" Così il
nuinzio apostolico monsignor Mario Zenari ha dichiarato alla Misna. "L’impressione
- ha spiegato - è che gli attentati compiuti ieri siano strumento di una forza che
intende compromettere gli sforzi di pace portati avanti in questo momento e su cui
tanta speranza è stata riposta dalla popolazione”. A preoccupare il nunzio è la notizia
delle armi che continuano ad affluire in Siria. Del dolore e sconcerto della gente
ci parla il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, fondatore del Monastero siriano
di Deir Mar Musa, raggiunto telefonicamente dalla collega del programma francese della
nostra emittente, Mathilde Auvillain R.
- Sicuramente la società locale è nuovamente sotto shock. Abbiamo ricevuto telefonate
da parte di molte persone, sia per assicurarci che stavano bene anche se toccate ma
in modo non grave dall’evento, sia per chiedere informazioni. D’altra parte il quartiere
dove sono avvenuti gli attentati è vicino ad un quartiere che conta una grande presenza
cristiana. Tutta la popolazione è sotto shock, e tutti si chiedono quale sia la logica
aberrante che si nasconde dietro queste azioni più che condannabili. Naturalmente
non hanno niente a che vedere con qualunque obiettivo di sviluppo e riforma della
società locale, ed è impossibile allo stato delle cose, capire chi si nasconda dietro
queste esplosioni.
D. - Il capo degli osservatori dell’Onu, Robert Mood, ha
chiesto aiuto alla comunità internazionale.
R. - In un certo senso la collettività
internazionale, quindi i Paesi di questa regione, per interessi regionali globali,
si sono interessati alla Siria in un modo che certamente non ha aiutato, che radicalizza
le posizioni e porta ad uno scontro più violento. Quindi in un certo senso si potrebbe
anche dire: “Lasciateci in pace”. Ma sotto un altro punto di vista, sono perfettamente
d’accordo con il generale Mood. Io ho sempre chiesto nei mesi scorsi che la collettività
internazionale esprimesse una responsabilità intera, completa, nei confronti di questi
eventi. La Siria è diventata il ring di un pugilato regionale pericolosissimo e quindi
la collettività internazionale deve esprimere una solidarietà responsabile ed efficace.
La scelta degli osservatori disarmati dell’Onu è giusta, ma non siamo ancora a 300;
e 300 sono pochissimi. Qui c’è bisogno di un lavoro capillare con altissima capacità
investigativa, per garantire ai siriani, da un lato, una vera e propria libertà di
opinione, di espressione, e di manifestazione e, dall’altro, di lavorare per estirpare
la violenza terrorista nel Paese da qualunque parte essa sia espressa.
Il
Patriarca melkita parla di “barbarie senza precedenti” e lancia un appello perché
“il mondo dica basta”. Anche la cattedrale melkita è stata danneggiata ieri dalle
esplosioni a Damasco. Gli osservatori Onu continuano il loro lavoro mentre la popolazione
è spaccata: è quanto ci racconta Cristiano Tinazzi che ha appena lasciato la
Siria: R. - La missione
degli osservatori viene percepita in modo positivo, ma al momento siamo ancora sui
100-120 osservatori. Bisognerà aspettare fine mese per averne 300 sul territorio e
quindi per vedere quanto e come si riuscirà poi a monitorare la situazione in tutto
il Paese e a far mantenere il cessate-il-fuoco. La volontà delle Nazioni Unite è chiara:
comunque gli osservatori non tornano indietro! Certo è che la situazione adesso non
è tra le migliori, soprattutto nella zona di Dara, per quello che sono riuscito a
vedere: a Dara ho visto una forte presenza di militari, anche molto giovani, soldati
di leva, armati pesantemente, con mitragliatrici pesanti, come se dovessero affrontare
una guerriglia; ad Homs, invece, gli ultimi armati, che si trovano ancora in alcuni
quartieri sotto il controllo dei ribelli finiranno presto – credo - di combattere…
D.
- Quindi ad Homs la gente si è arresa?
R. - Diciamo che Homs è chiusa in un
sacco: tutte le vie di accesso sono controllate; hanno problemi di rifornimento. La
città è disabitata. Ci sono alcuni quartieri dove ancora ci sono combattimenti: anche
lì ci sono le Nazioni Unite, ma non possono fare niente se non rilevare le violazioni
del cessate-il-fuoco, che chiaramente vengono da entrambe le parti. La novità è che
in tante zone i mezzi pesanti non si vedono. E’ chiaro che se gli osservatori dell’Onu
passano e poi non passano per tre giorni, i siriani hanno tutto il tempo di far riuscire
i carri armati dai posti dove erano stati nascosti.
D. - Che cosa dici - per
le località in cui sei stato - della disperazione e della preoccupazione della gente?
R.
- Da quello che ho capito, nel poco tempo che sono riuscito a rimanere - soltanto
pochi giorni - ho trovato una popolazione divisa: molti hanno appoggiato e appoggiano
la sollevazione, soprattutto tra i sunniti, ma molti non appoggiano questo tipo di
sollevazione, una sollevazione che è poi diventata armata. Condividono le richieste,
le istanze di maggiore democrazia e il riconoscimento dei diritti civili, ma non accettano
in nessun modo la lotta armata e questo soprattutto da parte delle minoranze, come
quella cristiana, che si trovano nel Paese. Questo sta portando quasi a una scissione
all’interno del Paese.