I medici del Bambin Gesù al servizio dei piccoli del Sud del mondo
All’Ospedale Bambino Gesù lo chiamano “un reparto grande cinque continenti”. Si tratta
delle attività umanitarie internazionali che, dal 1994, impegnano molti medici dell’Ospedale
pediatrico romano in missioni nel Sud del mondo. A guidare questo importante reparto,
è il dott. Lorenzo Borghese che, al microfono di Alessandro Gisotti,
racconta la sua esperienza al servizio dei bambini più bisognosi:
R. – Sin da
giovane, ho sempre avuto la voglia, il desiderio di conoscere diverse realtà in ambito
sanitario, ma soprattutto dare una mano a quei bambini che hanno decisamente più necessità.
All’epoca, però, ero molto giovane e l’inesperienza non era certamente un punto a
favore per ottenere una destinazione con le organizzazioni internazionali. Poi, casualmente,
15 anni fa ho risposto ad una domanda per un periodo di lavoro in Afghanistan e dopo
un anno sono stato assegnato in Cambogia, al confine con la Thailandia, per operare
i bambini, vittime di esplosioni di mine. Da quell’esperienza, poi, non sono più tornato
indietro. Oggi, dopo molti anni di lavoro in Paesi in via di sviluppo – in Asia, in
Africa e in Centro America – lavoro con l’Ospedale Bambino Gesù, che ha proprio come
filosofia di base aiutare i bambini poveri.
D. – C’è una storia che, tra le
tante, può sintetizzare in qualche modo il valore del suo impegno?
R. – Le
voglio raccontare una brevissima storia, che potrebbe dare una risposta alla sua domanda.
Un giornalista capacissimo, inviato dal proprio giornale a vivere e raccontare un
Paese difficile, al termine del primo mese scrive un pezzo emozionante, che fa aumentare
le vendite, dopo sei mesi elabora una recensione, anch’essa di grande successo, un
anno dopo, il nostro corrispondente, presenta un libro sulla propria esperienza e
diventa un bestseller. Poi, seguono le giornate e il giornalista smette di scrivere,
perché tutto ciò che aveva raccontato non corrispondeva più alla realtà, che aveva
appena iniziato a comprendere. Questa storia, dunque, è una storia vera e mi fu raccontata
da un giornalista di grande valore, che venne a visitarci al centro del Bambino Gesù
in Cambogia. Io ne rimasi profondamente colpito, perché era proprio l’esperienza che
avevo vissuto in quegli anni: all’inizio si vede tutto con occhi disordinati, poi
ci si fonde con le realtà e le storie apparentemente strane, diverse dalle nostre,
diventano la propria giornata di lavoro.
D. – Quanto queste missioni l’hanno
arricchita come uomo, oltre che come medico?
R. – Vivere a stretto contatto
per anni con popoli a cui mancano le necessità elementari – un tetto che non venga
giù alle prime piogge, cibo anche per il domani, la possibilità di crescere i propri
figli con adeguatezza, accudire la propria famiglia – ci rende partecipi e ci dà speranza,
ma soprattutto toglie di mezzo quel brutto difetto che spesso si manifesta senza volerlo
riconoscere: considerare per acquisito – forse anche con un pizzico di prepotenza
– se le cose non vanno proprio nel verso giusto, aspetti semplici della nostra vita,
senza riflettere che possono essere davvero complicati e difficili da ottenere per
molte di quelle popolazioni. Penso, per esempio, al privilegio di bere un bicchier
d’acqua dal rubinetto di casa, quando e come si vuole, oppure aprire un frigorifero
quando si ha un po’ di fame.
D. – Consiglierebbe questa esperienza a dei giovani
colleghi?
R. – Io penso che questa sia veramente la chiave di lettura per la
nostra società. Dobbiamo trovare il sistema di indirizzare con amore i giovani verso
questo tipo di lavoro, e sono certo, perché poi ho potuto verificare da questi ragazzi,
che queste esperienze sono uniche nel loro genere: ne fanno dei ragazzi più completi,
insegnano a dare. “Dai e ti sarà dato” è una gran bella verità, ma in qualche modo
ha bisogno di essere sperimentata.