La sfida del commercio equo e solidale nel libro di Monica Di Sisto
Garantire ai produttori dei Paesi in via di sviluppo un compenso “giusto” per il loro
lavoro, al riparo dallo sfruttamento delle multinazionali e delle grandi distribuzioni.
E’questa la sfida economica e politica del “commercio equo e solidale”, una realtà
che fattura ogni anno 4 miliardi di euro e coinvolge un milione di lavoratori nel
mondo, tra cooperative e piccoli produttori. Il libro “Un commercio più equo”, pubblicato
dalle edizioni Altraeconomia e presentato ieri alla Pontificia Università Gregoriana,
ne ripercorre le tappe e le prospettive. Michele Raviart ha intervistato l’autrice,
Monica Di Sisto, giornalista e docente di “Modelli di sviluppo economico” alla
Gregoriana:
R. - Il commercio
equo è una sfida; rappresenta l’idea che, per garantire opportunità di sviluppo a
tutti, sia possibile organizzare l’economia in un modo diverso, a partire dai consumi
quotidiani fino ad arrivare ad un’organizzazione delle filiere e della politica che
le gestisce, più coerente con questi obiettivi di promozione umana. Questa è una sfida
che i numeri del commercio equo dimostrano che si può vincere.
D. - Di che
volume di scambi stiamo parlando, anche in percentuale con l’altra parte dell’economia,
quella profit?
R. - Comunque in una condizione di recessione stabile, questo
tipo di pratica continua a crescere. È una crescita buona e si fissa ormai al trenta
percento annuo. Stiamo parlando di una piccola nicchia, di circa l’un percento del
commercio globale nel suo complesso, che però si espande, e che soprattutto per alcune
materie prime, quelle coloniali, che hanno avuto sempre un prezzo molto basso, ha
garantito un’opportunità di sopravvivenza per questo tipo di produttori.
D.
- Quali sono i prodotti equo-solidali che possono essere acquistati?
R. - Ormai
equo e solidale può essere quasi tutto: dai prodotti per pulire la casa, fino ai cosmetici,
oltre agli stessi prodotti coloniali quindi the, caffè, zucchero, che hanno rappresentato
un po’ la base dello sfruttamento di una parte del mondo a favore dei nostri Paesi.
Abbiamo un’ampia possibilità di qualificare il nostro consumo, e facendolo, questo
può veramente diventare uno strumento che ci consente di migliorare le condizioni
di vita, ormai non soltanto dei produttori del Sud del mondo.
D. - È un movimento
che ormai ha 50 anni di vita. Quali sono stati i successi più grandi raggiunti, e
quali sono, dall’altra parte, le maggiori criticità che ci sono adesso?
R.
- Secondo me, il più grande successo è quello di aver posto un problema a livello
globale: essere responsabili, come imprese, dei propri impatti sulle comunità locali,
è un punto di forza e non un punto di debolezza per l’economia, tanto che, molti attori
del mercato convenzionale, hanno ormai proprie linee equo-solidali. Questo però pone
anche un grande interrogativo, e cioè quanto questa entrata nel mercato “mainstream”
possa invece indebolire i principi del commercio equo; e questa è anche la sfida delle
organizzazioni: far si che alcuni territori esclusi, come sono ad esempio molti Paesi
africani, entrino stabilmente all’interno di uno scacchiere globale più giusto senza
che l’entrata delle multinazionali nel business equo uccida l’anima più politica di
questi principi.
D. – In Italia, sono presenti quasi cinquecento punti vendita
specializzati, ai quali si aggiungono gli scaffali dedicati ai prodotti equo-solidali
nei grandi supermercati. Come reagisce questo settore alla crisi?
R. - La situazione
italiana, in una condizione generale di crisi per il commercio, è comunque di tenuta.
Le organizzazioni, peraltro, sono molto diffuse sul territorio e c’è una prevalenza
di attività al Nord. È uno spazio in cui ci sono ancora diverse decine di migliaia
di cittadini volontari che fanno uno, due turni settimanali in bottega, e che comunque,
per quanto riguarda i consumi, continua a crescere di un 20 percento l’anno. Si sta
registrando naturalmente un primo impatto della crisi sui punti vendita dedicati,
cioè le “botteghe del mondo”, mentre la grande distribuzione si mantiene in crescita.
É responsabilità delle organizzazioni italiane, non fare in modo che il consumo rimanga
l’unica esperienza positiva, ma che quell’azione di comunicazione, informazione, educazione
nelle scuole che fanno le “botteghe del mondo” e che è peculiare del movimento italiano,
rimanga la nostra ricchezza, il nostro bene più prezioso da salvaguardare.