Due anni fa la "marea nera" nel Golfo del Messico: l'emergenza non è finita
Due anni fa, l’inizio del disastro ambientale più grave della storia degli Stati Uniti:
era infatti il 20 aprile del 2010 quando, a 66 miglia dalla costa della Louisiana,
esplose una tubatura della piattaforma Deepwater Horizon che estraeva petrolio per
la British Petroleum (Bp). Morirono 11 operai, 17 restarono feriti e nelle acque del
Golfo del Messico si riversarono per mesi oltre 780 milioni di litri di greggio, una
vera e propria "marea nera". Soltanto il successivo 19 settembre, dopo 106 giorni,
la fuoriuscita venne ufficialmente bloccata. Un’emergenza, quella che colpì Louisiana,
Mississippi, Alabama, Texas e Florida, che nel tempo ha superato di oltre dieci volte
per entità quella della petroliera Exxon Valdez nel 1989. A due anni di distanza,
il disastro ambientale si gioca ancora a colpi di carte bollate, richieste di risarcimenti,
discussioni legali e udienze nei tribunali. Il lavoro di ripulitura delle coste, come
lo stesso presidente statunitense Barack Obama ha più volte ammesso, non è ancora
completato: al di là dei risarcimenti - per i quali la Bp ha stanziato miliardi di
dollari - rimane l’allarme per intere catene alimentari, flora e fauna di irripetibile
rarità e bellezza e per i danni, non solo economici, alle popolazioni rivierasche.
Sulle ragioni di una così ampia gravità del disastro nel Golfo del Messico, Giada
Aquilino ha intervistato Matteo Mascia, coordinatore del progetto Etica
e Politiche ambientali della Fondazione Lanza di Padova:
R. - Innanzitutto,
per la perdita di vite umane e poi perché le emissioni di petrolio nel mare sono durate
per dei mesi interi. Oltre 700 milioni di litri di petrolio sono stati dispersi nel
mare. E quindi, per dimensione dell’evento, è stato il più grande disastro ambientale
del pianeta per quanto riguarda le emissioni di petrolio in mare.
D. - Dopo
106 giorni da quel 20 aprile, la falla venne cementificata. Ma l’emergenza rimane
ancora oggi: perché?
R. - L’intero ecosistema e l’area sono stati sconvolti
dalla presenza di sostanze legate al petrolio. Quindi, un disastro che ha riguardato
prima di tutto l’ecosistema marino ma poi, di conseguenza, il sistema economico e
sociale dei Paesi rivieraschi che su quell’area geografica avevano sviluppato attività
di tipo sociale, come il turismo o attività di tipo economico. È quindi un impatto
così importante che a due anni di distanza non ha ancora comportato una ripulitura
dell’area e non conosciamo i tempi per il ripristino degli ecosistemi. Tutto ciò,
ovviamente, evidenzia il perché oggi quell’area sia ancora un’area di emergenza o
comunque di grande problematicità e vulnerabilità.
D. - Quindi, per il Golfo
del Messico, peraltro già colpito dall’uragano Katrina, possiamo parlare di un disastro
ambientale, sanitario, economico e non solo. Si tornerà mai alle condizioni precedenti
il disastro?
R. - Non so con che tempi. Probabilmente sì, ma con tempi molto
lunghi, cioè quelli biologici. La capacità dell’ambiente naturale di rigenerarsi completamente
richiederà tempi molto più lunghi di quelli di ripristino di un minimo di sviluppo
economico e sociale: quello per fortuna arriverà prima. È stata messa in campo tutta
una serie di misure di attenzione e anche di controlli, affinché possa riprendere
un minimo di economia legata alla pesca, ai militi, ai frutti di mare ma anche allo
sviluppo turistico. Per quanto riguarda invece l’ecosistema marino, i tempi non li
conosciamo, però certamente dovremmo continuare a monitorare la situazione per comprendere
quali sono le effettive condizioni.
D. - Che tipo di prevenzione va effettuata
per evitare disastri di tale portata?
R. - Quello che è emerso per esempio
dall’incidente è che c’erano carenze normative per quanto riguarda la possibilità
di impiantare pozzi off shore a profondità così elevate, su cui pompava la
piattaforma della Bp. Dunque, c’è un problema normativo. In qualche modo, si è avviata
negli Stati Uniti una revisione generale e indubbiamente poi maggiori controlli ci
sono sul fronte, per esempio, delle tecnologie che sono impiegate e sul fronte del
personale specializzato.
D. - Sembra di capire che ai disastri naturali si
vadano a sovrapporre sempre più disastri antropici. Cosa è cambiato negli ultimi anni?
R.
- Sono cambiate molte cose, nell’attenzione e anche nella dimensione normativa dell’azione
di prevenzione, sul fronte delle politiche della legislazione a livello internazionale
e nazionale di attenzione all’ambiente. Sono migliorate poi l’attenzione e la percezione
dell’importanza della tematica ambientale, della salvaguardia del Creato. Rimangono
però ancora degli elementi in secondo piano rispetto allo sviluppo economico e alla
crescita economica. Questo comporta che, per quanto i miglioramenti siano in corso,
ci sia un pericolo sempre alto e che permanga il rischio che la dimensione dello sviluppo
economico, della crescita economica e del profitto prevalga rispetto all’attenzione
e alla salvaguardia dell’ambiente.
D. - È sul piano etico che si deve quindi
continuare ad agire?
R. - Assolutamente. Si deve puntare alla responsabilità
nei confronti dell’ambiente naturale e, attraverso l’ambiente naturale, nei confronti
dell’uomo, delle persone che vivono su questo pianeta e delle generazioni future.
La responsabilità da un lato e la cura dell’ambiente dall’altro devono essere un po’
i due orizzonti, i due principi di riferimento di un’etica della responsabilità che
ci fa riconsiderare il fatto che l’ambiente è la casa comune dell’umanità, è un dono
che Dio ci ha dato. Per questo dobbiamo agire con responsabilità e con attenzione.