Concluso il Convegno delle Chiese del Nordest. L'omelia del cardinale Bagnasco e il
commento di mons. Moraglia
Conversione e rinnovamento: è ciò che le comunità cristiane devono compiere per rispondere
alle attese del mondo. Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della
Conferenza episcopale italiana, alle Chiese del Triveneto riunite ieri pomeriggio
nell’antica Basilica di Aquileia, in provincia di Udine, per la Messa conclusiva del
loro 2° Convegno ecclesiale. Il servizio della nostra inviata, Adriana Masotti.
Nella sua omelia,
il cardinale Angelo Bagnasco si fa interprete delle domande sempre attuali dell’uomo:
“Dove sto andando? Che cosa mi attende dopo la morte? Che senso hanno le gioie e il
dolore? Dove ho fondato l’edificio dei miei giorni?". E richiama l’attenzione su quello
che appare il problema più urgente: la fede, “la fede non di chi non crede, ma di
chi crede” perché, dice ...
“ ... una fede a volte tiepida e stanca, poco
consapevole, non è in grado di riscaldare il mondo moderno che, dopo tante illusioni,
spera di ritrovare il cielo e di scoprire che non è disabitato”.
Tuttavia,
Dio aspetta le sue creature, continua, e arriva spesso prima dei suoi stessi messaggeri.
Ma come possiamo corrispondere meglio alle attese del mondo? “Il mondo ha bisogno
di vedere attraverso la comunità cristiana unita e gioiosa il volto del Risorto”,
afferma il presidente della Cei. E’ dunque una comunità solida quella che il Signore
vuole, attraverso cui l’uomo possa incontrare uno sguardo di misericordia e di perdono
di cui ha tanto bisogno per ricominciare:
“L’uomo, ogni uomo ha bisogno
di sentirsi rigenerato per guardare al domani con fiducia, per ricominciare la vita.
Tanta violenza nasce dal non sentirsi perdonati, fissati nei propri errori, e quindi
senza futuro, come se il tempo dovesse essere un continuo ritorno del male e della
vergogna. Ma così non è, e il mondo deve sapere che dove c’è Dio c’è futuro”.
E
hanno guardato al futuro le 15 Chiese del Triveneto in questi giorni. Le proposte
emerse dai lavori e consegnate ai vescovi hanno necessità ora di essere perfezionate
e assimilate. “Ripartiamo da Aquileia, si legge nel messaggio alle comunità cristiane
del Nordest, animati non da un ottimismo ingenuo, ma da quella speranza che non delude,
perché fondata su Gesù Cristo Risorto e la potenza del suo Spirito”.
Per un
bilancio del secondo Convegno delle Chiese del Triveneto, Adriana Masotti ha intervistato
mons. Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, chiedendogli innanzitutto come
ha vissuto questi giorni:
R. – Li ho vissuti
con curiosità, perché mi affacciavo ad una realtà nuova, ed anche una realtà che io
non avevo preparato, mentre i confratelli vescovi, il comitato e le nostre Chiese
avevano già preparato da due anni a questa parte. Una curiosità che si è poi risolta
in una sorpresa positiva, non tanto perché dubitassi delle capacità organizzative,
ma perché mi è parso anche di vedere un maturo senso di Chiesa, che si è manifestato
nella volontà di portare il proprio contributo nel desiderio di migliorare, ma anche
nella consapevolezza - che si cerca da sempre - di lavorare comunemente per annunciare
il Signore.
D. – Mi sembra che il tema dei giovani sia un po’ una spina nel
fianco, non solo delle Chiese del Nord-est, per il loro distacco progressivo dalla
Chiesa ...
R. – Io direi che il problema giovanile è una spina nel fianco,
non tanto per il Nord-est, ma per il nostro tempo, perché credo che al di là delle
nostre terre – dove certamente questo fenomeno è presente – la spina nel fianco sia
il tema dei giovani ed il nostro tempo. Forse noi non abbiamo saputo investire in
quella dimensione educativa, capace di suscitare una responsabilità prima di tutto
fondata su un vero amore. I ragazzi possono essere anche non consenzienti su certe
cose che vengono loro proposte, però sono molto sensibili a chi vuol loro bene e,
molte volte, certi ragionamenti faticano a decollare, proprio perché manca questo
humus di fiducia reciproca. Quindi io penso che l’educazione ed il recupero dei nostri
giovani, si fondi proprio su questa capacità di rinnovare una fiducia reciproca.
D.
– C’è stato un appello forte sul tema dell’immigrazione: che le Chiese si distinguano
da politiche che strumentalizzano il Vangelo...
R. – Sì, il Vangelo può essere
sempre strumentalizzato da tutti, una parola del Vangelo può essere interpretata in
mille modi. Penso che una lettura a 360° del Vangelo mi dica che l’uomo è al centro
dell’interesse di Dio e della Chiesa e soprattutto quando quest’uomo avesse qualcosa
di meno degli altri. Si è chiesto anche di non chiamare più gli “immigrati” con il
nome “immigrati”, ma migrantes per metterli al nostro fianco, riconoscendo che tutti
siamo migranti, pellegrinanti verso una meta che ci sta dinnanzi. Sono d’accordo su
questo: non ritengo che chi li chiamava immigrati volesse dare una connotazione negativa,
ma mi pare bella l’immagine di sentirci con loro - anche se magari in una situazione
più agevole di loro – in cammino verso qualcosa che sta davanti a noi e a loro. (cp)