Nota di padre Lombardi sul caso Orlandi: in Vaticano nessun segreto, massima collaborazione
con l'Italia
Da diverso tempo la vicenda del sequestro di Emanuela Orlandi, avvenuto nel 1983,
è tornata in primo piano sulle pagine di molti quotidiani italiani. In risposta alle
affermazioni della stampa, ecco la nota del direttore della Sala Stampa Vaticana,
padre Federico Lombardi:
La vicenda del tragico sequestro della giovane
Emanuela Orlandi è stata nuovamente richiamata all’attenzione pubblica nel corso degli
ultimi mesi da alcune iniziative e interventi che hanno avuto eco sulla stampa, e
in cui è stato avanzato il dubbio se da parte di istituzioni o personalità vaticane
si sia fatto veramente tutto il possibile per contribuire alla ricerca della verità
su quanto avvenuto. Poiché è passato ormai un tempo considerevole dai fatti in questione
(il sequestro avvenne il 22 giugno 1983, quasi trent’anni fa) e buona parte delle
persone allora in posizioni di responsabilità sono scomparse, non è naturalmente possibile
pensare a un riesame dettagliato degli eventi. Ciononostante è possibile – grazie
ad alcune testimonianze particolarmente attendibili e ad una rilettura della documentazione
disponibile - verificare nella sostanza con quali criteri e atteggiamenti i responsabili
vaticani procedettero ad affrontare quella situazione.
Le domande principali
a cui rispondere sono le seguenti: le Autorità vaticane del tempo si impegnarono
veramente per affrontare la situazione e collaborarono con le autorità italiane in
tal senso? Ci sono ancora elementi nuovi, non rivelati ma conosciuti da qualcuno
in Vaticano, che potrebbero essere utili per conoscere la verità?
È giusto
ricordare anzitutto che il Papa Giovanni Paolo II in persona si dimostrò particolarmente
coinvolto dal tragico sequestro, tanto che intervenne diverse volte (ben otto in meno
di un anno!) pubblicamente con appelli per la liberazione di Emanuela, si recò personalmente
a visitare la famiglia, si interessò perché fosse garantito un posto di lavoro per
il fratello Pietro. A questo impegno personale del Papa è naturale che corrispondesse
l’impegno dei suoi collaboratori. Il Cardinale Casaroli, Segretario di Stato e quindi
primo collaboratore del Papa, seguì personalmente la vicenda, tanto che, com’è noto,
si mise a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare.
Come
ha attestato già in passato e attesta tuttora il cardinale Re - allora Assessore della
Segreteria di Stato e oggi principale e più autorevole testimone di quel tempo -,
non solo la Segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati
nel fare tutto il possibile per contribuire ad affrontare la dolorosa situazione con
la necessaria collaborazione con le Autorità italiane inquirenti, a cui spettava evidentemente
la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in
Italia.
La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità
vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risultada
fatti e circostanze. Solo per fare un esempio, gli inquirenti (e soprattutto il SISDE)
avevano avuto accesso al centralino vaticano per possibile ascolto di chiamate dei
rapitori, e anche in seguito in alcune occasioni Autorità vaticane ricorsero alla
collaborazione con Autorità italiane per smascherare ignobili forme di truffa da parte
di presunti informatori.
Risponde perciò a pura verità quanto affermato con
Nota Verbale della Segreteria di Stato N. 187.168, del 4 marzo 1987, in risposta vaticana
alla prima richiesta formale di informazioni presentata dalla magistratura italiana
inquirente in data 13 novembre 1986, quando dice che “le notizie relative al caso…erano
state trasmesse a suo tempo al PM dottor Sica”. Atteso che tutte le lettere e le segnalazioni
pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Sica e all’Ispettorato di
P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici
giudiziari italiani.
Anche nella seconda fase dell’inchiesta - anni dopo -
le tre rogatorie indirizzate alle Autorità vaticane dagli inquirenti italiani (una
nel 1994 e due nel 1995) trovarono risposta (Note Verbali della Segreteria di Stato
N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21
giugno 1995). Come domandatodagli inquirenti, il Sig. Ercole Orlandi (papà
di Emanuela), il Comm. Camillo Cibin (allora Comandante della Vigilanza vaticana),
il Card. Agostino Casaroli (già Segretario di Stato), S.E. Mons. Eduardo Martinez
Somalo (già Sostituto della Segreteria di Stato), Mons. Giovanni Battista Re (allora
Assessore della Segreteria di Stato), S.E. Mons. Dino Monduzzi (allora Prefetto della
Casa Pontificia), Mons. Claudio Maria Celli (già Sotto-Segretario della Sezione per
i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato), resero ai giudici del Tribunale
Vaticano le loro deposizioni sulle questioni poste dagli inquirenti e la documentazione
venne inviata, per il tramite dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alle
Autorità richiedenti. I relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere
a disposizione degli inquirenti. È anche da rilevare che all’epoca del sequestro di
Emanuela, le Autorità vaticane, in spirito di vera collaborazione, concessero agli
inquirenti italiani ed al SISDE l’autorizzazione a tenere sotto controllo il telefono
vaticano della famiglia Orlandi e ad accedere liberamente in Vaticano per recarsi
presso l’abitazione degli stessi Orlandi, senza alcuna mediazione di funzionari vaticani.
Non
è quindi fondato accusare il Vaticano di aver ricusato la collaborazione alle Autorità
italiane preposte alle indagini. Ciò dà occasione di ribadire che è prassi costante
della Santa Sede di rispondere alle rogatorie internazionali, ed è ingiusto affermare
il contrario (come si è fatto ancora recentemente a proposito di una rogatoria sullo
IOR, che in realtà non è mai stata trasmessa alla Segreteria di Stato, come confermato
ufficialmente dalle competenti Autorità diplomatiche italiane).
Il fatto che
alle deposizioni in questione non fosse presente un magistrato italiano, ma che si
fosse richiesto alla parte italiana di formulare con precisione le questioni da porre,
fa parte della prassi ordinaria internazionale nella cooperazione giudiziariae
non deve quindi stupire, né tantomeno insospettire (si veda anche l’Art. 4 della Convenzione
Europea di assistenza giudiziaria in materia penale, del 20 aprile 1959).
La
sostanza della questione è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto
utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le Autorità
vaticane, in base ai messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che,
come periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al Papa – condivisero
l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione
criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione
e agli interrogatori dell’attentatore del Papa.
Non si ebbe alcun motivo per
pensare ad altri possibili moventi del sequestro. L’attribuzione di conoscenza di
segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni
vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione
attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla
frustrazione per il non riuscire a trovare la verità.
In conclusione, alla
luce delle testimonianze e degli elementi raccolti, desideroaffermare con
decisione i punti seguenti: tutte le Autorità vaticane hanno collaborato con impegno
e trasparenza con le Autorità italiane per affrontare la situazione del sequestro
nella prima fase e, poi, anche nelle indagini successive.
Non risulta che sia
stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano “segreti” da rivelare sul tema.
Continuare ad affermarlo è del tutto ingiustificato, anche perché, lo si ribadisce
ancora una volta, tutto il materiale pervenuto in Vaticano è stato consegnato, a suo
tempo, al P.M. inquirente e alle Autorità di Polizia; inoltre, il SISDE, la Questura
di Roma ed i Carabinieri ebbero accesso diretto alla famiglia Orlandi e alla documentazione
utile alle indagini. Se le Autorità inquirenti italiane – nel quadro dell’inchiesta
tuttora in corso – crederanno utile o necessario presentare nuove rogatorie alle Autorità
vaticane, possono farlo, in qualunque momento, secondo la prassi abituale e troveranno,
come sempre, la collaborazione appropriata.
Infine, poiché la collocazione
della tomba di Enrico de Pedis presso la Basilica dell’Apollinare ha continuato e
continua ad essere motivo di interrogativi e discussioni – anche a prescindere dal
suo eventuale rapporto con la vicenda del sequestro Orlandi - si ribadisce che da
parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata
e che la salma sia tumulata altrove,perché si ristabilisca la giusta serenità,
rispondente alla natura di un ambiente sacro.
Per terminare, vorremmo riprendere
spunto e ispirazione dall’intensa partecipazione personale di Giovanni Paolo II alla
tragica vicenda della giovane e alla sofferenza della sua famiglia, rimasta finora
nell’oscurità sulla sorte di Emanuela. Ancor più perché questa sofferenza purtroppo
si ravvivaal sorgere di ogni nuova pista di spiegazione, finora senza esito.
Se le persone che scompaiono ogni anno in Italia e di cui non si sa più nulla nonostante
le inchieste e le ricerche sono purtroppo numerose, la vicenda di questa giovane cittadina
vaticana innocente scomparsa continua a tornare sotto i riflettori. Non sia questo
un motivo per scaricare sul Vaticano colpe che non ha, ma sia piuttosto occasione
per rendersi conto della realtà terribile e spesso dimenticata che è costituita dalla
scomparsa delle persone – in particolare di quelle più giovani - e opporsi, da parte
di tutti e con tutte le forze, ad ogni attività criminosa che ne sia causa.