Lamezia. Spari contro la comunità di don Panizza, ma sale l'indignazione contro la
'ndrangheta
Ennesimo vile atto intimidatorio della criminalità organizzata contro la comunità
di don Giacomo Panizza “Progetto sud” che a Lamezia Terme, nel quartiere Capizzaglie,
accoglie immigrati e disabili. Ignoti hanno esploso due colpi di pistola contro la
saracinesca della comunità, che ha sede in un edificio confiscato ad una famiglia
della ‘ndrangheta. Ascoltiamo proprio don Giacomo Panizza, intervistato da
Amedeo Lomonaco:
R. – Ci sfianchiamo,
ci indeboliamo e, al tempo stesso, sappiamo che è il momento di resistere, perché
vogliono sostanzialmente chiedere che una casa confiscata vada in abbandono, piuttosto
che messa in attività.
D. – Quindi siete stanchi, sono atti che sfiniscono,
ma comunque permane la voglia di resistere, di far vincere la giustizia …
R.
– Perché sappiamo che la giustizia, come la libertà, l’amore e le cose grandi, hanno
bisogno di percorsi lunghi: non è che con un telecomando si passa dall’omertà alla
parola chiara. La fede comporta tanta pazienza, la speranza comporta tanta pazienza.
D.
– Sono atti che dimostrano che la vera disabilità non è quella fisica, ma c’è un cancro
che purtroppo colpisce il territorio. E’ quello che va estirpato, è quella la disabilità
vera …
R. – Sì, la disabilità nel senso di diventare incapaci di essere normalmente
giusti, normalmente cittadini e cittadine, normalmente solidali…
D. – Cosa
si sente di dire a queste famiglie della ’ndrangheta?
R. – Quello che ripeto
continuamente: la bellezza di vivere con la coscienza pulita, la bellezza di vivere
sognando insieme e non essere qualcuno contro il resto del mondo. Ogni clan vive contro
il resto del mondo e tanti - i numeri lo dicono – vengono uccisi anche tra di loro.
Mi sento di dire, e continuamente glielo dico, la bellezza è di vivere da uomini e
donne davvero.
D. – In questa situazione vi sentire abbandonati e isolati,
oppure c’è il conforto, il sostegno delle istituzioni?
R. – Sì, questo lo sentiamo.
Certo, la concretezza è sempre sui tempi più lunghi, però al momento le istituzioni,
ma anche la gente in genere, è indignata e proprio non capisce il motivo di questo
accanimento.
D. – La vostra comunità ha sede in un palazzo confiscato. La strada
dei beni confiscati è una strada giusta, bisogna forse anche approfondirla …
R.
– Bisogna secondo me, da una parte, che non sia lasciata da gestire soltanto agli
addetti ai lavori, ma che proprio sia le istituzioni sia la città, la società, sappiano
che quelle strutture confiscate non sono del gruppo di volontariato che le gestisce,
ma sono proprio di tutta la città, di tutta la cittadinanza. Mettersi insieme per
ridare dignità a case che sono state costruite sul sangue, sulle rapine, sulle estorsioni:
questo è un compito davvero di tutti. Tutti cambiamo la città se tutti ‘ci mettiamo
dentro’. Noi non ci ritiriamo, da questa bella avventura.
D. – Nella cittadinanza,
scorge semi di speranza, anche di allontanamento da quella che qualcuno definisce
una cultura dell’omertà?
R. – Sì, la gente non è più come ai vecchi tempi,
quando la ‘ndrangheta era intesa come qualcosa di nascosto. Ormai la gente conosce
le brutture della ‘ndrangheta, è più consapevole. Il problema è che rimangono ancora
quelli che, pur sapendo, stanno zitti. Per il resto è cambiato tanto: la partecipazione,
la consapevolezza, l’essere presenti. E’ cambiato tanto.
D. – Questo anche
grazie all’apporto di comunità come la vostra, al contributo della Chiesa …
R.
– Grazie all’apporto degli esempi, nei mondi della Chiesa e non solo. Le parole, le
prediche su questo, valgono davvero poco, però gli esempi ci sono. Contengono in se
stessi la bellezza della cosa da fare, perché è bello vedere – come abbiamo fatto
il 29 febbraio – migliaia di persone, per la prima volta, venire in quel quartiere
a manifestare. Non era mai accaduto. Gli esempi, davvero, sono belli e dicono che
‘si può’. Aiutano a capire che ‘si può’, non solo a teorizzare ma aiutano a vedere
che si può andare contro la ‘ndrangheta. (cp)