Economie emergenti: i Paesi "Brics" preoccupati per l'instabilità dei mercati
Si è concluso a New Delhi, in India il vertice dei Paesi "Brics" (Brasile, Russia,
India, Cina e Sudafrica), le economie emergenti, che hanno espresso la volontà di
un maggior coordinamento tra loro. Nel documento conclusivo, tra le altre cose, spicca
anche una forte preoccupazione per l'instabilità dei mercati, specialmente nella zona
euro. Ma qual è l’importanza oggi di questi Paesi? Riusciranno davvero a spostare
l’asse economico verso di loro? Salvatore Sabatino lo ha chiesto al prof.Gianfranco Viesti, docente di Economia Applicata presso l’Università di Bari:
R. – L’asse
economico si sta già spostando, e non perché Stati Uniti ed Europa stiano venendo
meno, ma perché questi Paesi crescono moltissimo. Sono molto importanti per molte
materie prime, ma sono soprattutto diventati delle grandi potenze manifatturiere,
cominciando dalla Cina, e nei servizi, cominciando dall’India. E’ un mondo più equilibrato,
nel quale i centri sono più di uno.
D. – I Brics vogliono avere una voce più
forte nelle istituzioni internazionali, come la Banca mondiale o il Fondo monetario
internazionale: ci riusciranno e a quali condizioni?
R. – Se ci riusciranno
non lo sappiamo, vedremo. Però, è molto importante tracciare un profilo storico: queste
istituzioni sono nate alla fine degli anni '40 del Novecento, quando il mondo era
dominato dagli Stati Uniti e aveva una netta prevalenza dei Paesi sviluppati. Loro
contano ora molto di più nell’economia, finanziano queste istituzioni e vogliono quindi
comandare di più. E’ un bel confronto democratico quello che sta avvenendo.
D.
– Nel documento conclusivo del Vertice di New Delhi, è stata espressa preoccupazione
per l’attuale situazione economica globale e per l’instabilità dei mercati, specialmente
nella zona euro. Questa instabilità quanto influisce sui Paesi Brics?
R. –
L’instabilità in Europa, quella che è nata negli Stati Uniti, pesa molto anche per
loro. Certamente, ci deve far pensare che risolvere definitivamente la questione delle
preoccupazioni per l’area euro è una responsabilità che noi - come Europa - abbiamo
nei confronti di tutti i Paesi: non si tratta di mettere ordine soltanto in casa nostra.
D. – Dal canto suo, l’Europa sta attraversando – e lo sappiamo tutti – un
momento difficile: si parla di recessione che continua in vari Paesi, di tagli dei
governi sulla spesa pubblica: quando si uscirà dal tunnel della crisi?
R. –
Questa mattina, il ministro italiano Passera ha esposto delle tesi un po’ preoccupate:
si andrà ancora avanti tutto l’anno in Italia con la recessione. Le cose dovrebbero
migliorare nel corso dell’ultima parte dell’anno e l’anno prossimo essere un po’ meglio,
ma sempre su livelli molto bassi. Il punto è che, oltre a quello che dobbiamo fare
in Italia, è decisivo quello che si fa in Europa: o i governanti europei si rendono
conto che devono mettere in campo un'azione strutturale per dare fiducia sull’euro,
e quindi chiudere definitivamente questa pagina, oppure – se continuiamo con le titubanze
del cancelliere Merkel e del presidente Sarkozy – rischiamo di avere questa situazione
ancora molto a lungo.
D. – La Spagna che scende in piazza per protestare contro
la politica di austerity del governo Rajoi può essere il prossimo Paese a finire
nell’occhio del ciclone?
R. – La Spagna ha molti buoni motivi per protestare,
perché in realtà era l’allievo modello dell’euro: aveva conti pubblici assolutamente
in ordine e aveva un debito molto basso. La situazione è precipitata a causa delle
banche e dei grandissimi salvataggi che ha dovuto fare il governo spagnolo. Dunque,
i lavoratori e i cittadini spagnoli che si vedono colpiti nella propria vita e nella
propria occupazione, senza avere nessuna colpa, hanno buoni motivi per protestare.
Naturalmente, la protesta in questo momento è un ulteriore fattore di instabilità
e non aiuta, ma getta anche un po’ di luce su quelle che sono le cause e le responsabilità
di questa manovra. E’ un po’ difficile pensare di risolvere questa crisi comprimendo
soltanto il lavoro, senza almeno cercare di andare alla radice dei problemi di fondo
che esistono nel mondo della finanza e nella situazione internazionale. (mg)