Mons. Paul Hinder: essere cristiani nella penisola araba
I cristiani nella penisola araba sono una minoranza che vive la propria fede con difficoltà.
Spesso lavoratori immigrati in Paesi musulmani, che non riconoscono loro la cittadinanza,
sono scarsamente tutelati e hanno pochi luoghi dove riunirsi. Sulle condizioni in
cui la Chiesa cattolica opera, Michele Raviart ha intervistato mons. Paul
Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale, un’area che conta circa due
milioni e mezzo di cattolici in Yemen, Oman ed Emirati Arabi Uniti:
R. - È chiaro
che le condizioni nelle società del Medio Oriente hanno un colore particolare. L’essere
migranti senza cittadinanza, essere esposti anche a tutte le possibilità di discriminazione,
sono situazioni in cui l'approfondire la relazione con Dio e tra le persone può essere
un aiuto. Nelle comunità cristiane, soprattutto in questi giorni che ci portano verso
la Pasqua, viviamo un’intensità che non avevo mai trovato prima, nemmeno in Europa
o nella mia patria.
D. - I cristiani, nella penisola araba, sono spesso immigrati
che lavorano al servizio della classe dirigente: da dove provengono?
R. - Dal
mondo intero. La maggior parte proviene dalle Filippine, dall’India. Numerosi immigrati
di lingua araba vengono dei Paesi del Vicino Oriente, dal Libano, dalla Siria e così
via, poi dall’Europa, dalle due Americhe. Per questo, abbiamo bisogno di una lingua
comune, che è l’inglese, perché è l’unico veicolo che ci permette, più o meno, di
essere in comunione con tutti.
D. - Nella penisola c’è una carenza di luoghi
di culto, spesso concessi in forma privata dalle autorità. Dove si riuniscono i cristiani?
R.
- Di solito, in questi posti che ci sono stati concessi. Talvolta, si organizzano
tra loro secondo le possibilità riunendosi nelle case private. Altre volte, per la
catechesi, prendono in affitto una casa per un week-end.
D. - Quali sono i
rapporti con le autorità politiche e con i cittadini?
R. - Con le autorità
politiche di solito i rapporti sono abbastanza buoni. Non dimentichiamo che, su sette
Paesi, cinque hanno rapporti diplomatici con la Santa Sede. I canali ci sono, i rapporti
- secondo me anche troppo - dipendono dai rapporti personali. I rapporti con la popolazione
musulmana dipendono un po’ dal Paese dove ci troviamo. È chiaro che la situazione
degli Emirati Uniti, dove soltanto il 20% della popolazione è cittadino, è diversa
da quello dello Yemen, dove gli stranieri sono una minoranza e, all’interno di questa,
i cristiani sono molto pochi.
D. - Quali sono le più grandi difficoltà che
incontra l’azione pastorale?
R. - C’è una difficoltà a livello pratico. Abbiamo
un problema permanente, che è quello di non avere sufficiente spazio per accogliere
il grande numero dei fedeli. Quando invece ci spostiamo al livello del contenuto,
sicuramente riscontriamo il problema dell’esperienza del povero. E con questo non
mi riferisco unicamente alla povertà materiale che esiste anche da noi, ma di quella
povertà che è quella di non avere delle sicurezze. L’unica sicurezza che abbiamo è
quella che riceviamo dal Signore.
D. - Che tipo di assistenza materiale offre
la Chiesa?
R. - Questa gente molto spesso ha dei problemi a livello sociale,
che non sempre siamo in grado di risolvere. Qualche volta riguardano debiti materiali,
vanno in prigione, superano il tempo di permanenza concesso del loro visto e quindi
devono pagare delle multe. Noi, in quanto Chiesa, abbiamo iniziato in alcune parrocchie
dei programmi di educazione su come gestire le finanze, per aiutare queste persone
e far sì che non cadano nella trappola dei debiti.
D. - Una sua testimonianza
personale: cosa vuol dire essere pastore nella penisola arabica?
R. - Cerco
di essere un uomo di fede, di preghiera, perché questa è la base. Perché davanti a
queste sfide la soluzione non si trova solo con la saggezza umana. Visito tutte le
parti del mio vicariato, incontro non soltanto i sacerdoti ma anche la gente. Non
ho mai predicato tanto come ora, secondo quello che Gesù ha detto a Pietro “Ti prego
di rafforzare la fede dei tuoi fratelli”: questo è quello che anche io devo fare.
(bi)