2012-03-24 14:55:50

A 32 anni dall'uccisione di mons. Romero, El Salvador resta uno dei Paesi più violenti al mondo


Le accuse di mons. Romero per quanto accadeva in El Salvador 32 anni fa, per le violazioni dei diritti umani subite dal suo popolo, sono valide anche oggi. Lo denuncia l’Ong ‘Soleterre’, che da anni lavora nel Paese centroamericano, in occasione della Giornata Internazionale per il diritto alla verità per le vittime delle violazioni dei diritti umani, che le Nazioni Unite hanno dedicato proprio a mons. Romero. El Salvador è una delle nazioni più violente al mondo, soprattutto contro le donne. Solo nel 2011 vi sono stati 647 femminicidi e centinaia di lesioni, abusi e stupri anche su bambine. La violenza sta raggiungendo livelli addirittura più alti che durante la guerra civile, che tra il 1980 e il 1992 ha causato circa 80 mila morti. Oggi, nel Paese, muoiono per omicidio in media 12 persone al giorno. Francesca Sabatinelli ha intervistato Valentina Valfrè, responsabile dei progetti di "Soleterre" in America Latina.RealAudioMP3

R. – Una delle cause principali – che era una delle cause che denunciava anche mons. Romero, durante le sue omelie – è la grande forbice che continua ad esistere tra ricchi e poveri, quindi la grandissima disuguaglianza sociale che affligge il Paese. Nulla è praticamente cambiato. Anzi, da questo punto di vista sembra che la situazione sia peggiorata. La violenza è molto diffusa all’interno della società, nel momento in cui la violenza viene in qualche modo "naturalizzata", è difficile poi uscirne. Quindi, si va dal semplice rischio di assalto, ad esempio quando una persona si sposta da un luogo all’altro del Paese, ai rischi più grandi, che si corrono quando ad esempio si denunciano determinate cose.

D. – Le "pandillas" sono violente bande di bambini e di adolescenti che nascono proprio dalle situazioni di disagio e di povertà. Sono anche queste ad insanguinare il Paese?

R. – Sì anche, ma non attribuirei la causa principale della violenza alla presenza delle "pandillas". Sicuramente è una violenza più visibile, più cruenta: le "pandillas" commettono omicidi in modi molto violenti, anche perché vogliono dare dei messaggi molto precisi. Il modo in cui vengono uccisi i rivali ha un significato che poi l’altra banda deve capire in qualche modo. La drammaticità è che spesso i membri di queste bande – quelli che poi, di fatto, costituiscono la cosiddetta mano d’opera – sono molto giovani, quindi, una volta che si entra in queste bande e si inizia a commettere omicidi ad 11-12 anni, è chiaramente molto difficile poi tornare in dietro, reinserirsi e reintegrarsi, soprattutto perché quando tu vuoi uscire, queste bande ti condannano a morte.

D. – Quindi è difficile riuscire a mettere in atto azioni di recupero per questi ragazzi?

R. – E’ difficile. Noi lavoriamo molto sulla prevenzione, che sicuramente è l’elemento principale: non fare in modo che questi ragazzi entrino in queste bande. Già ottenere questo vuol dire ottenere un grande risultato, e ottenere anche che riescano in qualche modo a capire che questa cultura della violenza diffusa non è quello che deve essere alla base della loro vita. Noi lavoriamo anche in tema di reinserimento, però è sicuramente più difficile, è un percorso molto molto lungo, senza poi un supporto da parte delle istituzioni il reinserimento è ancora più complesso.

D. – Questo significa che da parte governativa non ci sono delle politiche di sostegno?

R. – Tendenzialmente, fino ad oggi, si sono adottate sempre politiche repressive. Anche questo governo, purtroppo, sta continuando su questa linea, con atteggiamenti un po’ diversi rispetto al passato, però l’idea è sempre di partire dal punto di vista repressivo. Il passo principale dovrebbe essere coinvolgere le associazioni giovanili che in Salvador sono veramente tante e molto attive, cercare quindi un dialogo, un’interlocuzione tra il governo e la società civile, per arrivare anche a definire delle politiche giovanili inclusive.

D. – Molti salvadoregni, ogni giorno, cercano di uscire dal loro Paese per dirigersi verso gli Stati Uniti, verso il Canada. Cosa accade a queste persone …

R. – La maggior parte viene costretta a rientrare per le violenze che subisce durante il percorso verso gli Stati Uniti, e le subisce da diversi tipi di attori, non solo dai narcotrafficanti o dalle "pandillas", ma anche dalla polizia, dalle autorità di immigrazione.

D. – Per voi è difficile lavorare in questa situazione? Correte rischi molto alti?

R. – In alcuni momenti, sì. Noi cerchiamo di tutelare il più possibile il nostro personale locale, cerchiamo di non metterlo mai in pericolo, però chiaramente, quando si affrontano determinate tematiche, il rischio c’è.

D. – Mons. Romero è stato l’esponente di una Chiesa coinvolta in prima linea nel sostegno alla popolazione. Oggi questa stessa Chiesa come lavora …

R. – La Chiesa lavora, e molti dei nostri partner di progetti, associazioni o gruppi con cui lavoriamo, sono molto legati alla Chiesa nel Salvador. In Italia lavoriamo insieme alla "Comunità monsignor Romero" di Milano. E' un lavoro indispensabile perché le stesse "pandillas" si fidano dell’associazionismo religioso, in particolare della Chiesa cattolica, che ha sempre fatto un grande lavoro, collaborando proprio con la società civile; un lavoro direi fondamentale dal punto di vista della negoziazione con la società civile e le istituzioni. Ho visto e conosciuto tanti ragazzi, che stanno facendo e hanno fatto molto per il loro Paese e continuano a rischiare la vita. Le persone che vogliono cambiare le cose ci sono, però vanno supportate ed aiutate. L’esempio di mons. Romero è ancora forte proprio per questo. (cp)







All the contents on this site are copyrighted ©.