2012-03-21 15:51:21

Giornata mondiale della sindrome di Down. Intervista con il prof. Zampino del Policlinico Gemelli


Nel mondo, si celebra oggi la settima Giornata mondiale della sindrome di Down, con una serie di eventi e convegni organizzati dal Coordinamento nazionale delle Associazioni persone con sindrome di Down (www.coordown.it). Sugli aspetti della malattia, e sui luoghi comuni da sfatare, Eliana Astorri ha intervistato il prof. Giuseppe Zampino, responsabile del Servizio di Epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma:RealAudioMP3

R. – La sindrome di Down è una condizione clinica dovuta ad una trisomia, cioè tre cromosomi 21. Normalmente noi abbiamo una coppia di cromosomi – in tutto sono 23 coppie – mentre nella sindrome di Down abbiamo tre cromosomi 21 invece di due. E’ una condizione caratterizzata da alcuni segni clinici, tra cui il ritardo psicomotorio, che è l’elemento più importante nella gestione, ma possono complicare la vita di questi bambini anche le cardiopatie congenite e alcune altre problematiche cliniche, tra cui otiti medie, problemi di rifrazione, problemi di patologie autoimmuni, che interessano in modo particolare la tiroide. Una condizione clinica che interessa il bambino, ma che coinvolge ovviamente anche la famiglia e tutto il mondo che sta intorno a lui.

D. – E si conoscono le cause?

R. – L’eziologia non è conosciuta. Quello che sappiamo è che le cromosomopatie aumentano con l’incrementare dell’età materna. Man mano che l’età materna aumenta, aumenta questo rischio, passando da un’incidenza di uno su 2000 se si ha 20 anni a uno su 200 se si ha 37-38 anni.

D. – La sindrome può essere diagnosticata in quale momento della gravidanza e in che modo?

R. – La sicurezza della diagnosi normalmente si fa con l’amniocentesi, perché con l’amniocentesi si definisce la trisomia 21. Dal punto di vista ecografico, ci sono delle maniglie che ti permettono di arrivare alla diagnosi, ma non è una diagnosi di certezza. Dal punto di vista clinico e del pediatra, la diagnosi può essere posta in epoca neonatale perché ci sono delle caratteristiche cliniche che rendono riconoscibile il fenotipo, cioè le caratteristiche facciali associate alle altre caratteristiche, come appunto la cardiopatia, l’ipotonia, l’assenza del cosiddetto "riflesso di moro", che è uno degli elementi che caratterizza il neonato normale. Il riflesso di moro può essere attenuato o assente nel bambino con sindrome di Down.

D. – Come viene seguito un bambino con sindrome di Down, a partire dalla sua nascita...

R. – Il momento più delicato, quando nasce un bambino con la sindrome di Down, è ovviamente il momento della comunicazione, cioè informare i genitori di questo evento, perché ovviamente un genitore immagina che suo figlio sia l’"eternificazione" di se stesso, cioè un bambino perfetto. Quindi, la notizia che qualcosa è andato non come doveva è un evento estremamente luttuoso. Molti studi definiscono nella comunicazione uno degli elementi più importanti nel trattamento, nella gestione, nell’assistenza del bambino, perché il momento della comunicazione permette alla famiglia, se fatta in modo adeguato, di accettare prima e meglio il bambino, per iniziare poi una vita insieme integrata. Questo evento comunicativo è estremamente delicato e dopo questo evento comunicativo c’è da prendere in carico il bambino. Quando nasce un bambino con la sindrome di Down è un paradigma di una condizione di disabilità complessa congenita, che non è solamente un evento sanitario, ma interessa prima di tutto molti attori sanitari: interessa il pediatra, il genetista, il riabilitatore, il neuropsichiatra, il radiologo, l’oculista, interessa le infermiere che dovranno relazionarsi con la famiglia. Oltre alla parte sanitaria, c’è poi bisogno di un approccio multisettoriale – dal settore sanitario al settore sociale – perché qui non abbiamo appunto una malattia da combattere, ma un individuo da accettare e integrare. Quindi, abbiamo bisogno di una stretta relazione tra due settori: quello sanitario e quello sociale.

D. – Sfatiamo o confermiamo alcuni luoghi comuni circa la sindrome di Down: ad esempio il fatto che queste persone siano più affettuose di chi non è affetto da questa sindrome. E’ vero?

R. – Probabilmente, questo è il maggior problema di un bambino con la sindrome di Down. Quando nasce un bambino affetto da questa malattia, immediatamente ci rifacciamo a degli stereotipi, per cui è un bambino affettuoso, un bambino a cui piace la musica, un bambino che ha delle caratteristiche sempre comuni e costanti. Ora, questa è l’eliminazione della relazione tra persone, perché le relazioni tra persone sono basate sempre sul fatto che una persona ci stupisce in qualche modo, che troviamo qualcosa di nuovo nell’altro. Quando non c’è questo, tutto si appiattisce. In realtà non è così: la sindrome di Down è una condizione che in qualche modo interferisce sulla vita di un bambino, ma il bambino ha una sua personalità che è indipendente anche da questa condizione. Per cui, Paolo, con la sindrome di Down, è sicuramente differente da Maria, da Lucia, da Giovanni, che sono nella stessa condizione, perché hanno percorsi di vita e famiglie diverse, situazioni diverse che gli permettono di sviluppare personalità diverse.

D. – La terminologia non corretta: ancora oggi c’è chi chiama le persone con sindrome di Down, mongoloidi. Perché?

R. – Perché l’aspetto fisico fa ricordare gli abitanti della Mongolia. In realtà, già nel ’60, l’Oms ha bandito questa definizione, per cui si chiama sindrome di Down, dal nome del suo scopritore, e più tecnicamente si parla di trisomia 21.

L’Associazione Italiana Persone Down organizza questa sera al Teatro Valle Occupato di Roma il concerto “Canta che…ti passa?”, con Ambrogio Sparagna e il coro popolare diretto da Anna Rita Colaianni. L’iniziativa, promossa in occasione dell'odierna Giornata, sostiene il progetto “Che fai sabato sera?” volto a favorire la socializzazione e l’amicizia tra le persone con tale sindrome. Sentiamo Giampaolo Celani, presidente della sezione romana dell’associazione, al microfono di Cristina Bianconi:RealAudioMP3

R. - Nel fine settimana, 48 ragazzi, dai 20 anni in su, si organizzano a piccoli gruppi per poter passare delle ore di tempo libero insieme e per sfruttare le opportunità che una grande città come Roma può offrire: dal cinema, al ristorante, a un concerto, ecc. I ragazzi si organizzano grazie anche all’aiuto di operatori dell’associazione. Questo è pensato perché man mano che crescono, in particolare a partire dalla pre-adolescenza, trovano sempre meno persone disposte a stare con loro.

D. - Ritiene che quello della disabilità sia un tema ancora poco considerato nell’agenda istituzionale?

R. - Sì. Il problema principale è che viene visto come un costo. Le risorse vengono tagliate sempre di più. Si ritiene che si possa risolvere tutto mettendo un solo insegnante di sostegno per tre ragazzi all’interno delle classi oppure, nel mondo del lavoro, al massimo viene richiesto loro di fare una fotocopia. Inoltre, non esistono realtà di occupazione della giornata in alternativa al lavoro. Poi c’è il problema della residenzialità, delle case-famiglie, che sono piccole realtà che hanno delle spese che vengono sostenute sempre più difficilmente dalle amministrazioni e dal privato. E quindi, da questo punto di vista, tutto resta a carico della famiglia, del suo contesto, o di associazioni come la nostra che si autofinanziano, ma non sono sufficienti. (bi)







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