Il ricordo del rapimento e della morte dell'arcivescovo Rahho nelle parole di mons.
Warduni
L’Iraq ha ricordato il quarto anniversario della morte di mons. Paulos Faraj Rahho,
arcivescovo caldeo di Mossul. Il presule - già molto malato, con problemi cardiaci
- era stato rapito il 29 febbraio 2008 al termine della Via Crucis celebrata nella
locale chiesa del Santo Spirito. Il suo corpo senza vita venne ritrovato il 13 marzo.
Durante il sequestro vennero uccisi anche l’autista e due guardie del corpo. “Un atto
di disumana violenza”: così Benedetto XVI definì la morte dell'arcivescovo caldeo,
esprimendo il proprio profondo dolore e la particolare vicinanza alla Chiesa caldea
e all’intera comunità cristiana irachena. Ma come quella stessa comunità ricorda oggi
mons. Rahho? Risponde mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del patriarca
di Babilonia dei Caldei. L’intervista è di Giada Aquilino:
R. - Lo ricorda
con grande ansia, con grande dolore. E con lui ricorda tutti gli innocenti che sono
stati uccisi, rapiti o risultano ancora dispersi a causa degli attentati. Quando mi
riferisco a mons. Rahho, preferisco parlare di “morte”, perché all'ospedale non è
mai stata dichiarata una “uccisione”. Questo lo so, perché ero io che trattavo con
i malviventi. Lui era malato, gli mancavano le sue medicine durante il rapimento.
Io ho detto ai rapitori: "Per favore lasciatelo, se volete vengo io al suo posto,
ha bisogno di un dottore”. E invece loro un giorno mi hanno telefonato, dicendomi
che era morto. Egli non voleva che si intavolassero trattative economiche per la sua
liberazione. Diceva sempre: “I nostri nemici sono amici, perché il Signore ci ha comandato
di amare anche i nemici”. Per questo, noi lo ricordiamo con grande amore. Gli chiediamo
di pregare per noi tutti, affinché possiamo vivere la nostra fede, radicarci alla
nostra terra, alla nostra Chiesa, al nostro Cristo che è morto per noi. Tutti coloro
che sono morti insieme a mons. Rahho o in altre circostanze sono stati veramente testimoni
della fede cristiana, per amore di Cristo.
D. - Cosa ha significato, per i
cristiani d'Iraq, il sacrificio di mons. Rahho?
R. - Un’oblazione per il popolo
di Dio, per Cristo stesso. Lui diceva: “Siamo sempre pronti a morire per Cristo, siamo
pronti a tutto", perché la situazione era ed è ancora difficile. Mi riferisco a quel
periodo in cui ci sono stati tanti rapimenti, tante uccisioni. Questo è quello che
noi vogliamo ricordare: il suo coraggio.
D. - Qual è oggi la realtà dei cristiani
di Iraq?
R. - È una realtà molto precaria, molto difficile, perché non c’è
legge, non c’è un governo stabile, capace di guidare il popolo e la nazione. I politici
sono in disaccordo tra loro. Ci sono tanti interessi che vanno a danneggiare la popolazione
e non solo i cristiani. Siccome siamo una minoranza - siamo veramente un numero esiguo
di credenti - se manca qualcuno si nota subito. L’Iraq ha dunque bisogno di pace per
il bene di tutta la nazione e non solo per un gruppo, per un’etnia, per una religione
o una confessione.
D. - Allora, qual è il suo auspicio per il futuro dell’Iraq?
R.
- Il mio auspicio è che avvenga una riconciliazione interna, appunto tra i politici,
tra le religioni, tra le confessioni, fondata sull’amore. Dopo dieci anni, abbiamo
ancora solamente otto-dieci ore di elettricità al giorno: è pensabile ciò? Ci vuole
tanto sacrificio da parte di tutti. Che il Signore illumini le menti di tutti, perché
veramente si possa vivere la sua volontà. (bi)