Il film dei fratelli Taviani a Rebibbia, capolavoro di umanità
Hanno vinto l’Orso d’Oro al recente Festival di Berlino con “Cesare deve morire”:
i fratelli Taviani, maestri indiscussi del cinema italiano, hanno coraggiosamente
ambientato il loro ultimo film nel braccio di massima sicurezza del carcere di Rebibbia
a Roma. Attori i detenuti, molti di loro ergastolani. Un’esperienza forte e indimenticabile
per ogni spettatore, un capolavoro che parla a tutta l’umanità. Il servizio di Luca
Pellegrini:
Nel carcere
di Rebibbia, là dove la pena e il dolore ammantano di silenzio le celle e le vite,
Paolo e Vittorio Taviani sono entrati con discrezione e pietà e hanno chiesto:
recitate per noi il Giulio Cesare di Shakespeare. Li hanno filmati, tra colore e bianco
e nero, e ne è venuto un film durissimo, scarno, profondo, teso, un capolavoro che
giustamente ha mosso a entusiasmo critica, pubblico e giuria al recente Festival di
Berlino. Entrare in quest’opera significa anche entrare in se stessi: lo fa il pubblico,
scoprendo quella parte di realtà che troppo facilmente rimuove; lo hanno fatto i detenuti,
che al termine di questa irripetibile esperienza, si uniscono alla confessione di
chi ha recitato Cassio: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata
una prigione”. Che cosa ha significato per voi questa affermazione, abbiamo chiesto
ai fratelli Taviani:
R. - (Paolo Taviani) Ci ha colpito profondamente e, forse,
abbiamo fatto il film anche perché abbiamo ascoltato questa frase. Noi pensiamo che
l’arte è una scoperta per questi detenuti, dolorosissima, perché lo dice con dolore:
“Allora esiste anche un mondo che non conoscevo? E ora ho scoperto che cosa ho perduto,
oltre tutto quello che ho già perduto e lo sapevo!”. Quindi, dà sofferenza e dolore
la scoperta di questo Shakespeare. Al tempo stesso, pensiamo che la scoperta dell’arte
possa aver creato una coscienza nuova, per certi aspetti, anche in questi carcerati
e questa autocoscienza forse li aiuterà ad affrontare alcuni aspetti della vita dolorosa
che vivono giorno dopo giorno.
D. - Che cosa vi ha lasciato questa esperienza?
R.
- (Vittorio Taviani) Abbiamo capito che il carcere è veramente un inferno. Inoltre,
nell’alta sicurezza c’è ordine e silenzio, perché essendoci lì reati di mafia, camorra,
sono loro che se lo sono imposti - “fra di noi silenzio e ordine” - sapendo che il
silenzio e l’ordine è ciò che odiano di più. Si sono imposti questo per poter convivere.
Quindi noi viviamo tuttora un sentimento di grande contraddizione, perché noi abbiamo
avuto con loro un rapporto molto intimo, molto forte, come quando- insieme - si cerca
la verità attraverso un’opera d’arte.
D. - Una storia universale che supera
il confine dei dialetti in cui è recitata…
R. - (Paolo Taviani) Questo film
è arrivato alla mente, al cuore di chi era presenta a Berlino: hanno sentito che è
un film che parla un linguaggio che anche le popolazioni più lontane possono afferrare
e comprendere, grazie al costante mondiale che c’è della gente che vive nelle prigioni
e che soffre.
D. - All’inizio i vostri detenuti-attori si presentano con forza
e verità. Come hanno commentato questa vostra richiesta?
R. - (Vittorio Taviani)
Hanno detto: “Questo film probabilmente va in giro e allora noi vogliamo che chi ci
ricorda, chi ci ha dimenticato, chi ci aspetta, chi non ci aspetta, sappia invece
che noi siamo qui, vivi, nel silenzio ma vivi!”. Noi ci siamo molto emozionati e,
attraverso questi detenuti, abbiamo capito qualcosa di ciascuno di loro, della loro
natura, del loro dolore… Quindi pensiamo che quella sequenza sia una sequenza che
porta veramente a entrare dentro questo grande dramma del carcere. Subito dopo, poi,
vederli tutti quanti schierati, ciascuno con la condanna e la colpa che ha compiuto…
Le dirò, noi abbiamo avuto dispiacere a farli vedere improvvisamente sul grande schermo,
ma era l’unica maniera perché il pubblico capisse davvero che non sono soltanto dei
bravi filodrammatici, ma si portando dentro un dolore - come diceva Paolo - che è
un dolore del passato e che è un dolore del presente. (mg)