Indagine Medu sull'identikit dei senza fissa dimora in Italia
Sono 8.000 le persone senza fissa dimora a Roma, che vivono in condizioni precarie
sulle strade dell’esclusione; la maggior parte sono stranieri e il 40% sono richiedenti
asilo e rifugiati politici. A Firenze sono 1.000. È quanto emerge da un’indagine condotta
dal Medu – Medici per i diritti umani, che ha recentemente pubblicato i dati in un
libro dal titolo “Città senza dimora”, disponibile in libreria. Il testo raccoglie
anche 6 storie di homeless, testimonianze dirette da parte di chi nella strada cerca
di sopravvivere. Ma è possibile tracciare un identikit di queste persone? Alessandra
De Gaetano lo ha chiesto a Mariarita Peca, coordinatrice del progetto “Un
camper per i diritti” dei rifugiati:
R. – Le persone
che incontriamo in strada sono per la maggior parte straniere: gli italiani rappresentano
una netta minoranza. Per quanto riguarda gli stranieri si tratta – per l’83 per cento
– di persone che sono molto giovani, al di sotto dei 30 anni; le persone italiana
incontrate, invece, sono di solito più adulte e hanno dei percorsi di vita completamente
diversi: per gli stranieri, la strada è una tappa obbligata - ma iniziale - di un
percorso che li vede proiettati verso una progettualità futura; per quanto riguarda
la popolazione italiana, invece, si tratta piuttosto di una tappa finale, che arriva
a seguito di una serie di traumi, che portano la persona a perdere il contatto con
il tessuto sociale e con le relazioni umane più significative. A Firenze, poi, la
popolazione rom vive una situazione di estrema marginalità: le condizioni igenico-sanitarie
sono molto precarie ed hanno difficoltà ad accedere ai servizi, come - ad esempio
- al servizio sanitario. D. – Quali sono concretamente gli interventi del Medu
in relazione a questo fenomeno?
R. – Medu è un servizio di soglia: Medu si
muove con un’unità mobile, che è un camper attrezzato ad ambulatorio e con un’équipe
multidisciplinare, formata da medici, operatori sociali… Inizialmente Medu si muoveva
dando assistenza sanitaria ove necessario, orientamento, formazione e in alcuni casi
fornendo anche l’accompagnamento presso i servizi socio-sanitari di riferimento. L’attività
di Medu si è ora andata intensificando con un progetto rivolto ai rifugiati politici:
in questo caso si tratta di un accompagnamento non soltanto nell’orientamento e nell’inserimento
nel sistema sanitario, ma anche un accompagnamento legale, un accompagnamento sociale
e un orientamento più integrale e complessivo.
D. – C’è una storia particolarmente
significativa che emerge dalle strade dell’esclusione?
R. – La storia di un
ragazzo molto giovane, un rifugiato politico, che abbiamo incontrato presso l’ex ambasciata
somala, dove vivevano un centinaio di rifugiati somali, che avrebbero avuto diritto
a un luogo idoneo e dignitoso di accoglienza e che, invece, si trovavano a vivere
in strada. Questo ragazzo somalo ci ha raccontato tutto il suo viaggio per arrivare
in Italia, attraversando il deserto e attraversando il mare: ci ha raccontato tutte
le difficoltà e ci ha raccontato di come – una volta arrivato in Italia – sia stato
impossibile per lui trovare quelle protezioni, quelle tutele e quell’accoglienza prevista
dalla normativa e che una persona in fuga spera, prima o poi, di trovare. Ci ha raccontato
anche di tutti i suoi tentativi per andare in altri Paesi europei, dove trovare migliori
possibilità, e di come invece ogni volta venisse rimandato indietro, perché il primo
Paese dove la persona viene identificata è l’unico Paese dove la persona può vivere.
Questo ci permette di vedere i paradossi di un sistema che non è spesso in grado di
accogliere e che finisce per creare homeless, laddove ci troviamo, invece, davanti
a persone spesso provate da violenze estreme e da episodi molto traumatici. (mg)