Ad un anno dalla Primavera araba: le riflessioni di padre Pizzaballa e del ministro
Riccardi
La primavera araba ha inaugurato una nuova stagione di democrazia. I pareri dei molti
intervenuti al convegno organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, ad un anno dalla
famosa rivoluzione, sono stati piuttosto concordi: Paesi come Tunisia, soprattutto,
ma anche Egitto, Libia, sono usciti da dittature e si stanno avviando verso la rinascita
democratica. Certo non senza difficoltà e non esente dai pericoli rappresentati dall’estremismo
islamico. C’è ancora molto da fare – hanno detto esponenti laici e religiosi del mondo
arabo, cristiani e musulmani – ma il processo ormai è in atto. L’importante è che
i sistemi politici dei Paesi in transizione si basino sulla pluralità e sulla diversità.
Ad aprire i lavori, il ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione,
AndreaRiccardi, per il quale la primavera araba è stata una grande
sorpresa della storia:
“Io credo
che oggi l’islam si trovi dinanzi ad una grande sfida, che è la sfida della costruzione
della democrazia. Credo, ad esempio, che i media abbiano avuto un ruolo decisivo nella
rivoluzione e nella primavera araba: i media hanno portato, nel mondo arabo, il gusto
della differenza delle opinioni e del dibattito. Penso anche ai giornalisti morti
recentemente in Siria, al ruolo delle televisioni arabe e di quelle occidentali. La
vera sconfitta del fondamentalismo radicale, oggi, è stata la primavera araba, ma
questa non è un’esperienza conclusa. E’ un’esperienza che, in Tunisia, ha avuto dei
risultati, in Egitto vedremo, in Siria è ancora più drammatica ed in Libia abbiamo
avuto la fine di Gheddafi, anche se non si è raggiunta ancora una situazione stabile.
Ci troviamo quindi davanti ad un fenomeno complesso. Diverso fu il 1989 nell’Europa
dell’Est. Oggi, nel mondo arabo, sta avvenendo un processo cui guardiamo con interesse,
con simpatia ed anche con preoccupazione. Speriamo che il futuro non sia segnato da
nuove dittature di altro segno”.
Riccardi ha anche chiesto di non lasciare
solo il popolo siriano:
“La comunità
internazionale non deve dimenticare la Siria: il mondo arabo ha una responsabilità
in proposito, c’è anche una responsabilità da parte dell’Unione Europea e delle Nazioni
Unite. Dobbiamo stare vicino e dobbiamo dire chiaramente che non si esce con questi
metodi, che sono duri e violenti. Sono, però, anche impressionato dalla forza di questo
popolo, che continua le sue proteste nonostante i tanti morti e la dura repressione”.
Tra
i partecipanti all’incontro di oggi, padre PierbattistaPizzaballa,
custode di Terra Santa. Sinora la primavera araba non ha avuto un impatto forte su
Israele e Palestina, ha sottolineato, aggiungendo come i Paesi che ne sono stati coinvolti
debbano ora costruire un concetto nuovo di nazione. Il religioso francescano ha poi
parlato dei suoi timori al microfono di FrancescaSabatinelli:
R. – In questo
momento la Siria mi spaventa molto, perché è il luogo dove le diversità etniche e
religiose sono più forti che in qualsiasi altro Paese. Il rischio è quello di arrivare
ad una guerra civile, che questa convivenza serena, che c’è sempre stata tra i diversi
gruppi religiosi, esploda per motivi che non sono innanzitutto religiosi, con conseguenze
molto gravi che potrebbero segnare in maniera negativa e indelebile il rapporto tra
le comunità religiose. In Egitto la situazione è completamente diversa, si tratta
di costruire un nuovo modello di nazione che sta emettendo i primi “vagiti” di modelli
democratici, con tutte le paure e le involuzioni, i salafiti e così via ... che sono
parte integrante, sicuramente. Credo che però l’Egitto abbia anche gli anticorpi per
reagire nel tempo a questa situazione.
D. – Che cos’è che l’Occidente non capisce
di ciò che sta accadendo in Siria?
R. – L’Occidente, innanzitutto, non capisce
che l’elemento religioso è determinante. L’Occidente mette da parte l’esperienza religiosa
come una questione privata, vuole parlare solo di politica, di sviluppo, senza tenere
presente che la persona integrale, e i popoli nella loro integralità, hanno anche
questo elemento pubblico con il quale devono fare i conti. E poi, soprattutto, gli
occidentali dovrebbero imparare ad essere meno cinici, a guardare meno gli interessi
economici per l’Occidente, ma interrogarsi nel lungo termine, insomma: il bene di
quei popoli è anche interesse dell’Occidente.
D. – Sembra per tutti necessaria
una responsabilità condivisa tra cristiani e musulmani, perché sono le religioni che
dovrebbero cercare di promuovere il dialogo e il consenso. In questo momento, visto
l’andamento della “Primavera araba”, questo si può considerare possibile?
R.
– All’interno di tutte queste società, anche in maniera diversa, perché cambiano da
Paese a Paese, ci sono fermenti positivi, disposti e aperti al dialogo all’interno
di tutti i movimenti religiosi, islamici e cristiani. Ci si deve confrontare non sul
terreno dei princìpi, perché lì non ci si può incontrare, ma sui problemi del territorio,
sulla convivenza tra le persone, convivenza comune che poi tocca aspetti della vita
comune. Quindi come devono essere espressi, concretamente, diritti come la scuola,
l’educazione … sono aspetti molto concreti e determinanti perché sono luogo concreto
di incontro e di dialogo e di costruzione, anche, del modello di nazione.
D.
– La rivoluzione araba avrebbe dovuto dare la possibilità ai popoli di autodeterminarsi.
Lei vede questi segnali?
R. – I cambiamenti non sono mai veloci. Non si passa
da regimi dittatoriali, che per 40 anni hanno bloccato ogni forma di dialettica interna,
ad una democrazia piena. Quindi ci vorranno passaggi culturali, lenti ma necessari.
Quello che è importante, in questa primavera araba, è che questo processo è iniziato,
anche se sarà lungo e lento. Ci sono sempre gli integralismi in agguato, perché quelli
che in una realtà così complessa vogliono dare risposte semplici, ovviamente, possono
sempre trovare il grande consenso. Integralismi con tutte le loro conseguenze: persecuzioni,
instabilità sociale e così via. Ma non sono il grosso della popolazione e non bisogna
enfatizzarli più di tanto.
D. – I cristiani sono la parte più fragile?
R.
– I cristiani sono la parte più fragile, sicuramente. Da un lato sono membri effettivi
di quei Paesi, ma sono anche un po’ diversi perché non appartengono alla maggioranza
islamica: sono un po’ il criterio di lettura dei cambiamenti che stanno avvenendo
in quei Paesi. (gf)