Primavera araba: la fine del Novecento in Medio Oriente
“Medio Oriente - Una storia dal 1918 al 1991”. È l’ultimo libro di Marcella Emiliani,
mediorientalista e giornalista, già docente di Storia e Istituzioni del Medio Oriente
all'Università di Bologna-Forlì. Il volume, appena pubblicato da Editori Laterza,
ripercorre le tappe fondamentali del confronto dei Paesi arabi con il cosiddetto Occidente,
dai tentativi riformistici dell'Impero ottomano alla fine dell'Ottocento al moltiplicarsi
dei conflitti nel Novecento, con un inevitabile riferimento alla recentissima Primavera
araba. “Il Novecento in Medio Oriente - si legge nell’introduzione - è finito il 17
dicembre 2010 in un piccolo comune della Tunisia, Sidi Bouzid, dove Mohamed Bouazizi,
un giovane ambulante di frutta e verdura, si è ucciso cospargendosi di benzina e dandosi
fuoco”: è l’inizio della Primavera araba, le cui rivolte messe in moto hanno portato
“ad un punto di non ritorno le contraddizioni della modernizzazione in Medio Oriente”.
Al microfono di Giada Aquilino, ce ne parla l’autrice, Marcella Emiliani:
R. – Allo stato
attuale delle cose, è sostanzialmente una serie di promesse non mantenute. Non perché
le elezioni siano state vinte da partiti come Ennahda, cioè il Partito della rinascita
islamica in Tunisia, o dal partito dei Fratelli musulmani in Egitto; quanto perché
le poche strutture che erano organizzate hanno finito per riempire lo spazio politico
senza lasciare spazio d’espressione ai giovani e a quella società civile che, invece,
intendeva esprimersi. Certamente, queste – Ennahda, come pure il partito Giustizia
e Libertà che i Fratelli musulmani hanno potuto creare - sono realtà che hanno contatto
con la società civile: questo nessuno lo nega. Però, all’interno degli stessi Fratelli
musulmani egiziani, c’è stato uno scontro generazionale: tra le vecchie generazioni
che insistevano per un compromesso con i militari – come è stato fatto – e i giovani
che invece non lo volevano. Ed è qui che adesso le piazze vengono tradite, per quel
che riguarda l’Egitto e la Tunisia. Il discorso della Siria, come quello dello Yemen
o del Bahrein, è completamente diverso, naturalmente. In Siria, visto che l’attualità
è tremenda, diciamo innanzitutto che un esercito - che è stato quello che soprattutto
in Egitto ha permesso questa transizione, fino ad ora ‘indolore’, anche se di transizione,
poi, si può parlare fino ad un certo punto, perché Mubarak era un militare e i militari
sono al potere in Egitto dal 1952 - in grado di addossarsi la responsabilità di abbattere
un regime, per cercare di favorirne un altro, non c’è. Certo, parliamo di un regime
militarizzato. Ma il potere è nelle mani dei servizi di sicurezza che, a loro volta,
sono totalmente controllati dalla famiglia Assad e da una parte della minoranza alawita.
La tragedia degli alawiti siriani è veramente una tragedia nella tragedia, perché
11 mesi fa anche loro scendevano in strada a Latakia, che è la loro capitale naturale.
Adesso non si sente più parlare di Latakia, perché il regime ha fatto in maniera di
separare le comunità e di metterle l’una contro l’altra, ovvero le ha fatte percepire
come nemiche. Per esempio i cristiani: i cristiani non sono mai stati ferventi sostenitori
di un regime dittatoriale; però la Siria si vantava – per motivi puramente ideologici
– di essere l’unico Paese veramente laico del Medio Oriente, facendo vedere e dimostrando
tolleranza. Tutto rientrava in quest’ottica di laicismo ‘alla araba’. Ma adesso che
c’è questo scontro feroce tra la popolazione e il regime, la popolazione ha identificato
nei cristiani dei ‘fiancheggiatori’ del regime. Ma i cristiani non hanno alcuna colpa:
hanno fatto parte di un gioco ideologico del regime. E non è solo questo: ci sono
anche i curdi, i drusi… Quindi il Paese, che prima veniva vantato di essere una Nazione,
oggi è stato scientemente spaccato dal regime che ha messo tutti contro tutti. E a
ciò, poi, bisogna aggiungere un altro fattore, che è molto siriano: c’è sempre stato
quello che noi chiameremmo un provincialismo molto forte. Classi ed élite di Aleppo
con quelle di Damasco si sono sempre capite poco, per non parlare di quelle di Homs.
Per cui, la divisione tra comunità è stata aggravata anche dalla divisione tra province,
tra tutte le varie realtà locali.
D. – Nel 1945 – ricorda nel libro – è nata
la Lega Araba, che nelle scorse settimane ha inviato una missione di osservatori in
Siria, poi fallita. Ora l’Onu parla di “crimini contro l’umanità” commessi appunto
in Siria. Che ruolo hanno tali organismi internazionali in questo momento storico?
R.
– I siriani sanno benissimo di avere in mano alcune chiavi della stabilità del Medio
Oriente: l’alleanza con l’Iran, innanzitutto, con le navi che sono passate pochi giorni
fa per il Canale di Suez per andare a “proteggere” le coste siriane. L’altro fattore
importante è la stabilità del Libano. Sappiamo tutti che Siria e Iran hanno ottimi
alleati in Amal e in Hezbollah, cioè le due maggiori espressioni della comunità sciita.
Ora, se si diffonde a macchia d’olio questo tipo di instabilità, è chiaro che l’Occidente
è il primo ad essere preoccupato, come lo sono le petro-monarchie del Golfo. Dietro
alla mossa della Lega Araba di andare a prendere contatti, di organizzare una missione,
c’è un’articolata regia dell’Arabia Saudita che sta tentando in tutte le maniere di
favorire una transizione pacifica. Cioè: a Bashar al Assad viene garantita una sorta
di impunità, purché se ne vada e si indicono poi libere elezioni. Il problema è che,
nella realtà, questa via pacifica si allontana sempre più. L’Arabia Saudita, però,
tiene la situazione monitorata perché teme l’atomica iraniana, teme naturalmente un
colpo di mano di Israele contro i reattori nucleari iraniani, cerca di impedire che
la Siria diventi la miccia di una destabilizzazione che, a quel punto, vista ancora
l’eco della Primavera araba, potrebbe veramente incendiare il Medio Oriente. Ma questa
volta in maniera davvero drammatica. Quindi, è l’importanza strategica della Siria
che fa capire perché ci sia questa impotenza a livello internazionale. E poi, c’è
un fattore in più: c’è un ritorno di ruolo da parte della Russia. La Russia ha in
Siria l’unico porto sul Mediterraneo, che è il porto di Tartus. La Russia, per ora,
sta bloccando i lavori al Consiglio di Sicurezza non per vecchi giochi da Guerra Fredda,
quanto piuttosto perché sta negoziando il proprio ruolo per il “dopo”.
D. –
Lei ha citato i tanti conflitti che ci sono, purtroppo, nell’area mediorientale: il
conflitto israelo-palestinese dove va?
R. – L’attuale governo, quello di Benjamin
Netanyahu, non è disponibile a riprendere il dialogo: è più che evidente. Non intende
sospendere la colonizzazione dei Territori, che è l’unica condizione che il presidente
dell’Autonomia nazionale palestinese, Abu Mazen, ha posto per potersi ritrovare al
tavolo dei negoziati. Da considerare c’è anche il particolare momento della politica
internazionale: mi riferisco al fatto che tutti cercano di approfittare del periodo
elettorale delle elezioni americane. In questo momento, Obama ha le mani legate: questo
mi sembra evidente. Un’avventura in Medio Oriente dopo che sta facendo salti mortali
per rimpatriare i restanti militari – l’ha già fatto dall’Iraq; entro il 2014 deve
ritirare quelli dell’Afghanistan – non sarebbe certo ben vista in un momento economico
così difficile come questo per gli Stati Uniti. E tutti ne approfittano: la comunità
europea, come sappiamo, ha anch’essa i suoi problemi dal punto di vista economico
e comunque non ha mai messo in campo una forza militare. Gli unici che l’hanno fatto
sono stati gli Stati Uniti. In secondo luogo, c’è un ritorno ad una politica di potenze
in Medio Oriente da parte della Russia, negli ultimi dieci anni: diciamo che gli Stati
Uniti hanno sempre potuto contare su un’approvazione – tacita o non – della Russia,
soprattutto in un quadrante così strategico come il Medio Oriente. Oggi, le cose sono
molto più difficili e lo si è visto per quanto riguarda la Siria.
D. – Uno
degli attori principali di questa storia del Medio Oriente è il petrolio. Oggi che
ruolo gioca?
R. – Con l’irruzione, dal punto di vista della domanda petrolifera,
di due giganti come l’India e la Cina diciamo che gli strumenti che l’Occidente ha
per contenere alcuni Paesi produttori di petrolio – parlo dell’Iran, in buona sostanza
– si sono un po’ spuntati. Strumenti che, fino a che il maggior consumatore di petrolio
era l’Occidente, si potevano usare; oggi, molto meno. Cioè, se anche l’Occidente non
compra petrolio iraniano, la Cina è disponibilissima: offre collaborazione in cambio
di materie prime e non sta a sindacare sul tipo di regimi che sono in atto. Quindi,
diciamo che da questo punto di vista l’arma petrolifera non è così potente come lo
era fino a dieci anni fa. Per il resto, il petrolio sarà comunque, sempre, un motivo
di scontro. (gf)