Flessibilità che diventa precariato: i sindacati chiedono più welfare e impresa
Il tema del lavoro e delle politiche per l’occupazione giovanile continua a rimanere
centrale nella maggior parte delle economie europee alle prese con gli effetti della
crisi. Secondo un recente rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro,
i disoccupati nel mondo oggi sono 200 milioni. Sono i giovani a risentire maggiormente
della crisi dell’occupazione: dal 2007 al 2011 è aumentato di 4 milioni il numero
di giovani tra i 15 e i 24 anni disoccupati, raggiungendo la cifra globale di 74,8
milioni. Il problema evidenziato anche a livello internazionale resta quello della
ridotta capacità dei sistemi economici di creare posti di lavoro stabili. Di qui il
sempre più diffuso ricorso a lavori a tempo determinato e dunque al precariato. Una
soluzione che, tuttavia, in Europa e in Italia in 10 anni non ha prodotto i benefici
attesi. A Ilaria Lani, coordinatore delle politiche giovanili della Cgil, Stefano
Leszczynski ha chiesto cosa non ha funzionato?
R. – Non ha
funzionato il fatto che i contratti atipici introdotti una decina di anni fa con la
legge 30 sono contratti che davano meno diritti – penso quindi per esempio al compenso,
penso al diritto alle ferie, alle malattie e alla maternità – e quindi erano contratti
cui si faceva ricorso perché costavano meno, per risparmiare, e non prendevano in
considerazione la formazione. Il datore di lavoro, dunque, non aveva alcun interesse
a investire sul lavoratore e a costruirgli un percorso. Dobbiamo, quindi, ripartire
immaginando una forma di ingresso al lavoro che dia formazione, che responsabilizzi
il datore di lavoro.
D. – Quindi, in sostanza il precario oggi viene visto
come una manodopera a basso costo, che si può utilizzare quando serve e dismettere
quando non serve più. Siamo molto lontani da quel concetto di professionalità che
dovrebbe permettere a ciascuno di diventare imprenditore di se stesso...
R.
– Esatto, è esattamente il contrario di quello che ci avevano raccontato quando sono
stati introdotti questi contratti. Alla fine, paradossalmente, i precari sono quelli
meno autonomi, con meno spazi per esprimere la propria professionalità; sono quelli
più subalterni, perché essendo molto ricattabili, sono quelli che hanno meno diritti.
D.
– Inoltre, tra un periodo lavorativo e l’altro, per i precari, l’unico ammortizzatore
sociale sembra rimanere la famiglia...
R. – Questo è il problema. Tanto che
se oggi si parla di giovani fino a età improbabili è perché c’è una generazione intrappolata
in una condizione di mancanza di autonomia, proprio perché c’è una generazione che
è disoccupata o comunque perde il lavoro e non ha sostegno al reddito. L’unico ammortizzatore
è la famiglia, che deve sobbarcarsi anche quest’onere. Quindi, oggi, se vogliamo intervenire
per consentire ad una generazione di avere autonomia e costruirsi una propria famiglia,
dobbiamo intervenire molto sul welfare.
D. – Ci sono degli esempi in Europa,
cui si potrebbe fare riferimento?
R. – Ci sono modelli molto diversi in Europa.
Ci sono modelli per cui è sostenibile una situazione di flexsecurity, come per esempio
il modello danese, di cui tanto si è parlato, ma che è un modello dove c’è un intervento
pubblico fortissimo, in termini di sostegno al reddito e anche in termini di servizi
all’impiego. Quindi, è un modello molto lontano dal nostro. Ci sono poi modelli come
la Germania, dove c’è una forte ristrutturazione delle imprese, dove la precarietà
non ha assolutamente questo livello, anzi lì si entra in tempi rapidi nel mondo del
lavoro. E’ difficile, dunque, parlare di modelli del mercato del lavoro se non si
ragiona anche in termini di modelli produttivi e di modelli sociali di intervento
pubblico. Modelli negativi, simili al nostro, ci sono: la Spagna, la Grecia... Noi
credo che invece dobbiamo guardare a come uscirne, rafforzando il sistema delle imprese,
il sistema produttivo e contemporaneamente il nostro sistema di welfare.
D.
– Al momento attuale, secondo lei, la politica si sta muovendo nel senso giusto?
R.
– La grande novità di questi ultimi mesi è che finalmente questo governo ha posto
il tema della precarietà e il tema della condizione giovanile come temi da affrontare.
Questo è molto importante, perché finora non era neanche riconosciuto il problema
ed è un problema invece molto grosso. La questione adesso è trovare le risposte giuste.
La cosa che a me spaventa è un atteggiamento talvolta un po’ strumentale che rischia
di far passare l’idea che serva ancora nuova flessibilità. Invece non credo che serva
nuova flessibilità. Abbiamo visto negli anni 2000 quanto la flessibilità abbia fatto
male al nostro Paese e quanto questa cosa abbia prodotto più disoccupazione e non
meno disoccupazione. Il tema oggi, quindi, è quello di intervenire sullo sviluppo
per ridurre la disoccupazione e intervenire nel mercato del lavoro per ridurre la
precarietà. Se si fa questo, io penso si possa fare un buon servizio al Paese e ridare
una prospettiva e un futuro ai giovani. (ap)