Pirati e stabilità interna: le priorità della Conferenza di Londra sulla Somalia
A due giorni dalla Conferenza di Londra sulla Somalia, si intensificano i contatti
diplomatici per trovare una soluzione al più lungo conflitto del Corno d’Africa. Il
premier britannico, David Cameron, ha incontrato a Downing Street alcuni "membri della
diaspora somala" per ascoltare il loro punto di vista e capire come la comunità internazionale
possa agire. Intanto, sul terreno i ribelli al Sahabaab hanno annunciato di voler
lanciare una nuova offensiva contro i contingenti dell'Amisom, dell’Etiopia e del
Kenya che operano nelle regioni meridionali e centrali del Paese. Stefano Leszczynski
ha intervistato Mario Raffaelli, presidente dell’Ong Amref ed esperto di
Somalia:
R. – La Conferenza,
che si aprirà il 23 febbraio a Londra, sarà certamente un momento importante per rimettere
l’attenzione internazionale sulla Somalia, visto l’alto livello e l’alto numero di
partecipanti. Le ambizioni iniziali, però, che sembravano quelle di poter avviare
un nuovo approccio definitivo sul problema, mi pare si siano ridimensionate anche
per l’esistenza di diverse posizioni all’interno della Comunità internazionale. E’
già tra l’altro annunciata per giugno una nuova conferenza ad Istanbul, organizzata
dalla Turchia, che di per sé mi sembra una esplicita ammissione che questa non sarà
risolutiva.
D. – Guardando alla comunità internazionale, e pensando in particolare
all’Occidente, sembra che la cosa che preoccupa di più sia quella della pirateria...
R.
– Purtroppo, l’ottica prevalente è sempre quella legata agli interessi mediati e quindi
la pirateria. Non è un caso che ci sia stata questa iniziativa a Londra, decisa dal
primo ministro: sappiamo che le compagnie di assicurazione sono basate essenzialmente
lì e sappiamo anche che ci sono state grosse pressioni per affrontare questo problema
che, ancora una volta peròm può essere risolto solamente se si risolve il problema
terra: non può essere risolto solo con mezzi militari. C’era un nuovo atteggiamento
positivo, che era quello di capire il tentativo di risolvere i problemi partendo da
un governo centrale e poi, via via, estendendo il controllo sul territorio non può
funzionare e quindi una c’è una nuova attenzione sulle realtà territoriali. Tutto
questo è limitato, però, alle realtà territoriali cosiddette liberate.
D.
– A livello politico e diplomatico, sembra un po’ che questa scelta e questa opzione
di uno Stato federale rappresenti una soluzione di comodo per dare uno Stato definitivo
al frazionamento di quella che un tempo era la Somalia...
R. – Diciamo che
il problema è come questa scelta federale sarà gestiva, nel senso che sicuramente
un assetto decentrato è l’unica strada per risolvere il problema somalo. La dimostrazione
è data proprio da Somaliland e dal Puntland, che essendosi costituita attraverso processi
fra somali, su una base – diciamo – di rappresentanza etnica equilibrata, sono gli
esempi di stabilità consolidatisi ormai nel corso di quasi 20 anni in un caso e meno
nell’altro. In sé è giusta la strada del decentramento, ma bisogna stare attenti a
come perseguirla, perché è chiaro che nel momento in cui questa diventa la scelta
prioritaria nascono anche spinte di microfrazioni o "micro-cla"n o piccoli leader
che controllano porzioni del territorio e che – come sta accadendo, perché ci sono
ormai decine di richieste di autonomia – vogliano diventare presidenti di qualcosa.
E’ importante ribadire che le regioni in Somalia sono quelle storicamente determinate,
sono quelle venti e non possono certo essere moltiplicate a piacimento. Portare avanti
un ragionamento di stabilità, anche in maniera graduale e in maniera incrementale.
(mg)