Siria: bombardamenti di massa a Homs, quasi 70 i morti. Padre Samir: situazione insopportabile
La Siria continua ad essere tra le prime voci dell’agenda diplomatica internazionale.
Dopo la risoluzione di condanna da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu, la comunità
internazionale resta divisa: da una parte Russia e Cina, che si oppongono a qualsiasi
tipo di sanzione, dall’altra USA e Unione Europea che continuano a chiedere le dimissioni
del presidente Bashar Al Assad. Il regime, però, non sembra scalfito da queste richieste,
e continua a reprimere le proteste. Solo ieri 70 i morti. Il servizio è di Marina
Calculli:
Sulla drammatica
situazione in Siria, ascoltiamo la testimonianza del padre gesuita Samir Khalil Samir,
docente di Storia della cultura araba e Islamologia all’Università Saint-Joseph di
Beirut. L’intervista è di Salvatore Sabatino: R. – Di fatto
la Comunità internazionale può soltanto esercitare pressioni: già questo, però, aiuta
la gente che protesta, perché gli dà coraggio. Però concretamente è poi il regime
che farà quello che dovrà fare. Questa pressione internazionale indebolisce la posizione
del regime e, forse, questo può aiutare a fargli prendere la decisione di ritirarsi,
perché non si può continuare così! Il governo ha promesso che fra 15 giorni ci saranno
elezioni, ma è un modo per prendere tempo e continuare intanto la guerra! La guerra
è fra le due parti, ma è una guerra diseguale: l’opposizione non ha i carri armati,
non ha le stesse armi che ha il governo.
D. – Padre Samir, questo tipo di guerra
va ad agire soprattutto sulla popolazione - abbiamo visto moltissimi morti civili
– e soprattutto va ad agire dal punto di vista economico. Il Paese sta pagando un
prezzo enorme…
R. – Una lettera dei padri gesuiti arrivata in questi giorni
da Homs dice che una gran parte della popolazione non trova da mangiare o ha paura
di uscire per comprarlo, perché rischia la vita. Ci sono cecchini dappertutto, dalle
due parti: chiunque può morire! E’ una situazione umanamente insopportabile! Adesso
soprattutto nella città di Homs, ma anche in diverse località della Siria, la guerra
si è generalizzata: stiamo passando a una guerra civile.
D. – Bisogna anche
dire che la Siria è un Paese molto particolare e questa situazione così drammatica
che sta vivendo potrebbe avere degli effetti anche nei Paesi limitrofi: sappiamo dei
rapporti delicati con il Libano; sappiamo che i rapporti si sono complicati molto
anche con la Turchia, ultimamente, per la questione dei profughi…
R. – In Libano
temono questa situazione, a causa della vicinanza, perché parecchi profughi valicano
la frontiera. La Turchia di fatto non la teme, perché è un Paese grande e forte. Quello
che può succedere o piuttosto ciò che si teme che possa succedere è all’interno del
Paese stesso e cioè la guerra tra fazioni.
D. – Padre Samir, volevo parlare
con lei della quotidianità che si vive in questo Paese: è una quotidianità difficile,
perché piegata dalle violenze, ma anche da una grossissima crisi economica derivata
da queste proteste. Ci può raccontare come si vive una giornata in Siria in questo
periodo?
R. – La gente che può fugge: questa è la prima soluzione. Rimanere
nei punti caldi significa rischiare la morte: senza accorgersene, semplicemente il
passo più banale può essere l’ultimo. Per evitare questo la gente si protegge come
può, ma anche le case non sono sicure… Proteggersi vuol dire non uscire, ma questo
vuol dire anche soffrire la fame. Tutto è diventato precario.
D. – E’ una guerra
che coinvolge davvero tutti: abbiamo sentito dati impressionanti sul coinvolgimento
dei bambini, ne parla l’Unicef, ne hanno parlato il Papa e Ban Ki-moon…. Insomma una
situazione drammatica anche questo punto di vista...
R. – Lo è perché non si
fa più differenza. Arrivati a questo punto non c’è più umanità: c’è solo la violenza
per arrivare a vincere a tutti i costi. Questa è la vera tragedia! Da tempo doveva
esser fatto qualcosa e non si è fatto nulla! Il governo non ha ceduto e l’unico metodo
che ha è quello della repressione.
D. – Padre Samir, quale potrebbe essere
la chiave di volta per fare un passo indietro, per far sì che questo Paese non scivoli
verso la guerra civile?
R. – Se il governo riconosce che la situazione così
com’è non è più vivibile e decide di rinunciare al potere - come hanno fatto i presidenti
della Tunisia, dell’Egitto… - allora ci potrebbe essere una soluzione. Sembra, però,
che questo passo non lo vogliano fare.
D. – Ho sentito più volte in questi
giorni parlare di una “sindrome irachena”, che coinvolge soprattutto i cristiani:
i cristiani che sono presenti in Siria hanno paura poi di dover fuggire e che quindi
la loro comunità scompaia dal Paese…
R. – Io spero che questo non avvenga.
I cristiani erano e sono un elemento di stabilità di questo Paese: danno un contributo
economico, anche politico. Al di là del numero, della loro proporzione - i cristiani
rappresentano il 10 per cento – hanno un peso certamente più grande rispetto a quello
che è il loro numero. Partire sarebbe una perdita non soltanto per i cristiani, ma
per la nazione: per quanto è possibile, noi cristiani abbiamo il dovere di rimanere
finché si può. L’esilio sarebbe catastrofico per tutto il Medio Oriente: in Palestina
ormai i cristiani non torneranno più; in Iraq, lo stesso; in Giordania, i cristiani
sono pochi… In tutta questa zona, fatta eccezione per il Libano, e dopo il Libano
è la Siria che può dare forza ai cristiani di tutta questa parte, che va dall’Iraq
alla Palestina. (mg)