Quattro anni fa l'indipendenza del Kosovo. L'esperienza delle Acli nell'area
Quattro anni fa, il 17 febbraio 2008, avveniva la proclamazione unilaterale dell’indipendenza
del Kosovo dalla Serbia. Oggi, a Pristina, le celebrazioni per la ricorrenza, con
la partecipazione della presidente Atifete Jahjaga del premier Hashim Thaci. Nei giorni
scorsi, il referendum nel quale i serbi del nord del Kosovo si sono espressi – con
il 99,74% delle preferenze – contro l'autorità, il governo della maggioranza albanese
e le strutture di potere di Pristina. In questo quadro, il prossimo 21 febbraio riprenderanno
i negoziati fra Serbia e Kosovo, fortemente voluti dal governo di Belgrado per un
graduale avvicinamento all’Unione Europea, in vista di un’eventuale concessione alla
Serbia dello status di candidato. Ma oggi il Kosovo che Paese è? Giada Aquilino
lo ha chiesto a Paola Villa, presidente della ong delle Acli "Ipsìa", presente
in Kosovo con progetti di cooperazione e sviluppo dal 1999:
R. - Oggi, il
Kosovo è un Paese in bilico tra un ritorno al nazionalismo e ai conflitti del passato
e un futuro europeo di integrazione economica e sociale.
D. - Nei mesi scorsi
si sono avute tensioni ai confini, quando si è insediato il personale albanese nei
posti doganali: dalla guerra del ’99 cosa è cambiato?
R. - Sostanzialmente,
è rimasta una situazione di divisione territoriale ed etnica, un po’ sul modello di
"cantonizzazione" ripreso dalla Bosnia, ma non è ripresa una convivenza reale, se
non in piccole situazioni dove non ci sono le grandi enclave. Ed è rimasta sospesa
tutta la questione della zona nord.
D. - Mitrovica, una della città in cui
i serbi hanno votato nei giorni scorsi, è un po’ il simbolo del Kosovo, divisa dal
fiume Ibar tra comunità serba e comunità albanese. Rimane quindi una parcellizzazione
del territorio? Che rischi ci sono?
R. - Rimane soprattutto un futuro incerto,
perché il rischio in questo momento è cosa avverrà dopo il referendum dei giorni scorsi
e dopo i quattro anni di indipendenza. Bisognerà capire nei prossimi colloqui di mediazione
di fine febbraio come la comunità internazionale prenderà in considerazione il risultato,
dopo aver dichiarato che il referendum è illegale e quindi nullo ma - dal punto di
vista simbolico e politico - è impossibile non considerarlo. Bisognerà poi vedere
cosa avverrà ai primi di marzo, quando l’Unione europea dovrà decidere sulla candidatura
della Serbia ad un ingresso nell’Unione stessa.
D. - Come ha accennato, nei
prossimi giorni ripartiranno i negoziati tra Belgrado e Pristina. La spaccatura che
si è creata tra i serbi del nord e il governo del presidente Tadić peserà in qualche
modo?
R. - Sicuramente. Il messaggio dei serbi del nord è più un messaggio
rivolto alla Serbia che al Kosovo. Quello che le persone di Mitrovica e degli altri
comuni del nord hanno comunicato a Tadić è che non sono disponibili a essere offerte
in “scambio” per l’entrata in Europa.
D. - Quindi, una via di mediazione dove
si può trovare?
R. - È molto difficile, perché in questo momento non esistono
delle proposte concrete. Ogni tentativo che tocca la ridefinizione dei confini apre
contenziosi su altre zone e potrebbe, a ricaduta, toccare altre parti dei Balcani.
Dal nostro punto di vista, l’unica soluzione è una Unione Europea che intervenga in
maniera più politica, più uniforme, e che tratti l’entrata in Europa dei singoli Paesi
dei Balcani in maniera unitaria e non frammentata, offrendo quindi un’integrazione
che può avvenire solo in una ricomposizione reale dei conflitti.
D. - "Ipsìa"
è presente dal ’99, quindi dai giorni della guerra in Kosovo. Ci sono esempi che voi
avete visto e vissuto sul terreno, esempi di convivenza e di integrazione?
R.
– Sì, ci sono esempi che sono esempi di realtà più piccole. Ci sono persone di diverse
etnie, di diverse religioni, che convivono nel quotidiano all’interno però di un contesto
che non facilita. E sicuramente è più facile con le altre etnie: in Kosovo non sono
presenti solo serbi e albanesi, ma ci sono i bosniaci, i gorani, i rom, impegnati
in una fatica generale di integrazione che sicuramente non è estremizzata – come nel
rapporto tra albanesi e serbi – ed è quindi un po’ più facile avere dei risultati
positivi.
D. - La guerra in Kosovo di fatto bloccò molte attività produttive
del Paese: pensiamo all’industria mineraria locale. Il Kosovo è un Paese di giovani,
in un momento in cui i giovani soffrono a causa della crisi in Europa e non solo.
A cosa può puntare allora il Kosovo oggi?
R. - Noi stiamo puntando molto, ad
esempio, sull’agricoltura, cioè su una valorizzazione e un’integrazione delle realtà
che già ci sono, ma che per il territorio possono avere uno sviluppo economico e sociale
maggiore se si mettono in rete. A oggi, l’agricoltura è un po’ finalizzata solo alla
singola sussistenza o alla singola prospettiva di vita, mentre una rete di commercializzazione
e di produzione anche fuori dal Kosovo con i Paesi confinanti avrebbe maggiori prospettive
per tutti. In ogni caso, il Kosovo non è un Paese che può pensare di avere uno sviluppo
economico e sociale da solo. L’integrazione e lo scambio con tutte le zone circostanti
è indispensabile.
D. - Di fatto, come avvengono i vostri progetti?
R.
- Da una parte, è un lavoro di formazione, di sostegno alla micro-impresa e al micro-credito
con le realtà produttive, con un’attenzione sia alla dinamica di convivenza tra le
diverse realtà di minoranza e maggioranza, sia anche alla questione di genere, perché
– in una realtà come il Kosovo – le differenze di genere e la difficoltà delle donne
di integrarsi nella vita sociale ed economica sono ancora molto presenti, soprattutto
nelle zone rurali. Dall’altra parte, lavoriamo con progetti di volontariato internazionale,
campi estivi e servizio civile. Proprio domenica prossima, partiranno tre ragazzi
che hanno passato le selezioni del servizio civile in Italia e che trascorreranno
un anno in Kosovo lavorando in tutti questi ambiti. (bi)