Comunità internazionale al lavoro per risolvere la crisi in Siria. Commento del rettore
del Pontificio collegio armeno
In Siria si continua a morire. Anche ieri altre vittime ad Homs, a causa dei bombardamenti
delle forze governative. Una situazione che ha suscitato la denuncia dell’Alto Commissariato
dell’Onu per i Diritti Umani sarebbero oltre 300 le persone uccise dalle violenze
– afferma il Commissario Navi Pillay – solo negli ultimi dieci giorni, mentre si avvicina
a 6 mila il numero globale delle vittime. Sempre più grave la crisi umanitaria. E
la comunità internazionale aumenta gli sforzi per risolvere la situazione. Solo la
Cina parla della crisi siriana come “affare interno di Damasco”. Il servizio di Marina
Calculli:
Benedetto XVI, domenica all’Angelus, aveva lanciato un “pressante
appello a porre fine alla violenza e allo spargimento di sangue”. Al microfono di
Giada Aquilino, ce ne parla mons. Kevork Noradounguian, armeno della Siria, originario
di Aleppo, rettore del Pontificio collegio armeno di Roma: R. – Sua Santità
ha letto davvero i cuori e le menti della popolazione della Siria, perché è auspicio
di tutti i cittadini siriani porre fine alle violenze e agli spargimenti di sangue
ed incontrasi attorno ad un tavolo.
D. – Benedetto XVI ha ricordato nella
preghiera le vittime, “fra cui - ha detto - ci sono molti bambini”. Qual è la situazione
sul terreno al riguardo?
R. – Una volta saltata la tappa del dialogo, ci si
è rivolti alle armi e ora ci vanno di mezzo tutti. Le armi non hanno una religione,
non hanno coscienza e non distinguono fra innocenti, bambini, donne, vecchi, anziani.
Purtroppo queste sono le leggi della guerra.
D. – Come vivono i cristiani in
Siria? R. – In Siria, noi siamo cresciuti e abbiamo avuto un’educazione col concetto
di cittadinanza laica: da noi si dice sempre “la patria è di tutti, la religione è
di Dio”. Quindi quello che vive un cristiano in Siria è quello che vive ogni cittadino
siriano, che sia musulmano, sunnita o sciita. Viviamo tutti come cittadini e quello
che accade in Siria lo viviamo allo stesso modo: è sempre la stessa cosa per tutti.
D.
– Da più parti si è parlato del rischio di una ‘irachenizzazione’ del conflitto, con
l’accentuazione delle divisioni tra le varie confessioni religiose: che rischi corre
la minoranza cristiana in Siria?
R. – Vedo un po’ difficile che qui il caso
dell’Iraq si ripeta. Certamente il rischio c’è, diciamo che è minore: se si continua
ad appoggiare una parte contro l’altra, se si continua sempre a giocare sulle differenze
religiose, certo anche le forze dell’uomo possono non bastare. Fino a questo momento
non vedo tale rischio: la cristianità è proprio nel profondo; la religione è una relazione
con Dio e non con lo Stato. Se continuano ancora questi fenomeni, con la strada del
dialogo chiusa, certo che poi possono anche risvegliarsi conflitti intercomunitari.
D. – La comunità cristiana in Siria come è formata?
R. – Ci sono gli
armeni, ci sono i greco-cattolici, ci sono i caldei, ci sono tutte le Chiese d’Oriente:
ci sono le Chiese orientali nei due rami, il ramo cattolico e il ramo ortodosso, come
greco-cattolici e greco-ortodossi; siriaco-cattolici e siriaco-ortodossi.
D.
– Quanti sono i cristiani oggi in Siria?
R. – Si parla di circa un milione,
circa il 7-8 per cento della popolazione, che oggi è di circa 17-18 milioni di abitanti. D.
– Ancora nelle ultime ore un messaggio di sostegno di Al Qaeda alla rivoluzione siriana:
Al Zawahiri ha esortato i siriani a non contare sull’Occidente, sugli Stati Uniti,
sui governi arabi o sulla Turchia. C’è il pericolo di infiltrazioni terroristiche
nel futuro del Paese?
R. – Penso che già ci siano. Ci sono cose preparate,
progettate e sponsorizzate dal di fuori.
D. – La Lega Araba, l’Onu, la comunità
internazionale in generale: che aiuto può arrivare a questo punto alla Siria? R.
– Possono fare tutto e tanto, possono impegnarsi per cercare di convocare tutti attorno
ad un tavolo, per arrivare al dialogo. (mg)