Festival di Berlino tra intrighi internazionali e mondo delle passioni umane
In "Shadow dancer", James Marsh mette in scena un tragico evento della guerra, che
oppose i nazionalisti irlandesi e il governo britannico: una giovane militante, arrestata
nel corso di un fallito attentato alla metropolitana londinese, viene costretta con
il ricatto ad accettare l’infido ruolo di informatrice della polizia. Giocato sul
doppio binario dell’inganno e dell’attesa, il film lascia lo spettatore nelle stesse
condizioni in cui stava il personaggio del precedente film di Marsh, "Man on wire",
ovvero sulla corda della tensione e del possibile colpo di scena.In "Barbara",
Christian Petzold propone invece il terzo episodio di un trittico dedicato alle donne
dell’ex Germania dell’Est. Anche qui, come nel caso della protagonista di "Shadow
Dancer", una donna sta per cambiare di campo, abbandonando la Ddr per fuggire all’ovest.
Ma la situazione di confino coatto in cui si trova e soprattutto il coinvolgimento
nel suo nuovo lavoro, complottano per trasformare le certezze in dubbi. Al contrario
di Marsh, che usa delle inutili complicazioni di sceneggiatura per intorbidare il
racconto e catturare l’attenzione, Petzold sceglie una linearità narrativa classica,
che permette allo spettatore una posizione naturale di distanza e di rispetto.Compie la stessa scelta, spingendola fino alle sue estreme conseguenze, "Captive"
di Brillante Mendoza, che accompagna l’odissea di un gruppo di turisti francesi, rapiti
da una banda di ribelli salafiti, nella giungla delle Filippine. Qui il gioco delle
contrapposizioni, che era la costante di "Shadow dancer", e si trovava diluito in
"Barbara", si annulla del tutto. Dopo un’iniziale antagonismo di ruoli, determinato
dalle contrapposizioni ideologiche, i personaggi diventano delle figure indistinguibili
di fronte all’indifferenza della natura.Una tale progressione di messe in
scena trova la sua logica conclusione nel miglior film di questi primi giorni, "Cesare
deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani. Qui il classico intreccio del testo shakespeariano
diventa altro dalla tradizionale rappresentazione teatrale, fondendosi nei corpi di
attori immersi nella loro stessa tragedia di uomini. Interpretato dai detenuti della
prigione di Rebibbia, il Giulio Cesare del drammaturgo inglese riprende così vita
nella parlata popolare degli ultimi della terra, nei corpi trasformati dalla macerazione
degli anni, nei tempi della prova e della scena, negli spazi senza orizzonti del carcere.
Alla fine non si sono più né antagonismi né spettatori, ma solo un unica, malinconica
constatazione della fragilità effimera del momento presente. (Da Berlino, Luciano
Barisone)
Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 44