2012-02-13 16:30:07

Festival di Berlino tra intrighi internazionali e mondo delle passioni umane


In "Shadow dancer", James Marsh mette in scena un tragico evento della guerra, che oppose i nazionalisti irlandesi e il governo britannico: una giovane militante, arrestata nel corso di un fallito attentato alla metropolitana londinese, viene costretta con il ricatto ad accettare l’infido ruolo di informatrice della polizia. Giocato sul doppio binario dell’inganno e dell’attesa, il film lascia lo spettatore nelle stesse condizioni in cui stava il personaggio del precedente film di Marsh, "Man on wire", ovvero sulla corda della tensione e del possibile colpo di scena. In "Barbara", Christian Petzold propone invece il terzo episodio di un trittico dedicato alle donne dell’ex Germania dell’Est. Anche qui, come nel caso della protagonista di "Shadow Dancer", una donna sta per cambiare di campo, abbandonando la Ddr per fuggire all’ovest. Ma la situazione di confino coatto in cui si trova e soprattutto il coinvolgimento nel suo nuovo lavoro, complottano per trasformare le certezze in dubbi. Al contrario di Marsh, che usa delle inutili complicazioni di sceneggiatura per intorbidare il racconto e catturare l’attenzione, Petzold sceglie una linearità narrativa classica, che permette allo spettatore una posizione naturale di distanza e di rispetto. Compie la stessa scelta, spingendola fino alle sue estreme conseguenze, "Captive" di Brillante Mendoza, che accompagna l’odissea di un gruppo di turisti francesi, rapiti da una banda di ribelli salafiti, nella giungla delle Filippine. Qui il gioco delle contrapposizioni, che era la costante di "Shadow dancer", e si trovava diluito in "Barbara", si annulla del tutto. Dopo un’iniziale antagonismo di ruoli, determinato dalle contrapposizioni ideologiche, i personaggi diventano delle figure indistinguibili di fronte all’indifferenza della natura. Una tale progressione di messe in scena trova la sua logica conclusione nel miglior film di questi primi giorni, "Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani. Qui il classico intreccio del testo shakespeariano diventa altro dalla tradizionale rappresentazione teatrale, fondendosi nei corpi di attori immersi nella loro stessa tragedia di uomini. Interpretato dai detenuti della prigione di Rebibbia, il Giulio Cesare del drammaturgo inglese riprende così vita nella parlata popolare degli ultimi della terra, nei corpi trasformati dalla macerazione degli anni, nei tempi della prova e della scena, negli spazi senza orizzonti del carcere. Alla fine non si sono più né antagonismi né spettatori, ma solo un unica, malinconica constatazione della fragilità effimera del momento presente. (Da Berlino, Luciano Barisone) RealAudioMP3

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 44







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