2012-02-07 16:54:02

Duecento anni fa nasceva Charles Dickens, magistrale narratore dei chiaroscuri dell'essere umano


La luce di “Oliver Twist” contrapposta alle tinte cupe di “David Copperfield”. In mezzo a queste due sponde ideali si colloca gran parte del percorso narrativo e stilistico di uno dei più grandi romanzieri inglesi di tutti i tempi, Charles Dickens, del quale si celebrano i 200 anni dalla nascita. Un autore impregnato della mentalità vittoriana dei suoi tempi: capace di indignazione nei riguardi di abomini come la schiavitù, ma anche di cecità nei riguardi dei soprusi dell’Impero britannico. Capace di scolpire magistralmente le bassezze della natura umana ma anche di concepire la conversione di un cuore, quello del suo Ebenezer Scrooge del celeberrimo “Canto di Natale”, quando il diamante della bontà emerge da sotto la crosta di un’intollerabile grettezza. Su questi e altri aspetti di Dickens, Alessandro De Carolis ha intervistato il prof. Gino Scatasta, docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna:RealAudioMP3

R. – Dickens, in un certo senso, rappresenta le tendenze del suo tempo e attraversa tutto il periodo vittoriano, anche se il periodo vittoriano inizia alla fine degli anni Trenta ed è caratterizzato inizialmente da questo forte ottimismo, da questa tendenza all’idea che si possano risolvere questioni sociali, politiche e senza particolari problemi. Sono gli anni dell’Impero britannico e i primi romanzi sono caratterizzati da una fiducia nella possibilità di cambiare le cose. Più si va avanti e più la produzione di Dickens diventa cupa, diventa “dark”. Davvero, “dark” è il termine forse più adatto per gli ultimi romanzi, quelli degli anni Sessanta e Settanta. A tutto questo, poi, si unisce un interesse fortissimo per quelli che sono gli aspetti della vita quotidiana: in particolare Dickens è bravissimo nel tratteggiare personaggi che sono immortali, con una capacità che prima di lui aveva avuto probabilmente solo Shakespeare. Non possiamo dimenticare, fin dall’inizio, gli amici di Pickwich, i ladri della banda di Oliver Twist, il cattivo di David Copperfield. Spesso i più memorabili sono proprio i cattivi più dei buoni…

D. – Dickens nasce come cronista: in che modo lo stile dei suoi tanti reportage entra in quello dei suoi romanzi?

R. – Sono fondamentali. Dickens aveva un’innata capacità di osservazione. Era un grandissimo camminatore e camminava sia di giorno che di notte, anche a causa della sua insonnia. Percorreva chilometri e chilometri in campagna, ma soprattutto in città, dove vedeva personaggi, sentiva rumori, udiva suoni, vedeva delle scene… Questo era fondamentale per la sua immaginazione. Essere un cronista, allora, era per lui il punto di partenza. Poi, non aveva soltanto l’interesse per l’aspetto umano, ma anche per gli aspetti sociali della sua epoca: la povertà, la miseria che in quei anni era enorme; Londra era la più grande metropoli con contraddizioni impressionanti.

D. – A proposito della sensibilità di Dickens verso i mali della sua società, quale posizione aveva? Ad esempio, viaggiando negli Stati Uniti si sa che ebbe parole durissime contro la schiavitù dei neri…

R. – Sì. Dickens era davvero un vittoriano medio nel senso che aveva una capacità di reagire alle ingiustizie del suo tempo e poi era completamente cieco rispetto ad altre, che probabilmente non vedeva come ingiustizie. Sulla schiavitù fu molto violento, anche perché odiava un po’ gli americani per problemi sui diritti e la schiavitù, ovviamente, rientrava in questa sua critica alla società americana. Però, rispetto alle rivolte che ci furono contro l’Impero britannico in India fu violentissimo nel dire che bisognava reprimere con violenza e con forza… In questo caso, sembra non capire assolutamente alcuni aspetti del colonialismo inglese, che erano certamente non dissimili da quello che era lo schiavismo negli Stati Uniti. Oppure, il suo rapporto con le donne, che è stato molto criticato negli ultimi libri perché, agli occhi dei contemporanei, il modo in cui trattò la moglie non è esattamente il tipico esempio del buon marito e dell’amante della famiglia che invece Dickens cercò di dare di se stesso.

D. – Duecento anni dopo, Dickens parla a noi in che modo?

R. – E’ un problema interessante, perché ho visto che moltissimi convegni e conferenze sono su Dickens “nostro contemporaneo”. Se uno guarda alla fortuna critica di Dickens, si accorge, per esempio, che c’è stato un momento in cui l’aspetto sociale, politico, è passato in primo piano. In altri momenti, si è più considerato il suo aspetto di narratore, la sua capacità di incantare attraverso la parola, attraverso delle storie. Oggi, possiamo un po’ vedere entrambi questi aspetti: Dickens era un grande realista, ma era anche un grande narratore. Ed è interessante anche vedere come Dickens lavorasse in modo seriale: quasi tutti i suoi romanzi vengono pubblicati a puntate, quindi con una struttura simile a quella che oggi ha una fiction televisiva, e teneva sempre avvinti i lettori che aspettavano ansiosamente il mese successivo per sapere cosa sarebbe accaduto ai loro personaggi. Questo è un altro aspetto che andrebbe rivalutato: la capacità di Dickens di narrare serialmente e come questo sia diventato oggi un modo importante con altre forme di narrazione che sono trasmigrate dalla letteratura ad altri campi.(mg)







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