Servitore della pace in tempo di guerra: la storia di mons. Biguzzi, vescovo emerito
di Makeni in Sierra Leone
Gran parte del ministero di vescovo l’ha vissuta difendendo il suo gregge dalle atrocità
della guerra civile e poi spendendosi perché tutto il Paese ritrovasse la strada della
riconciliazione. Dopo 25 anni, mons. Giorgio Biguzzi, 75enne vescovo di Makeni
in Sierra Leone, ha ceduto il passo per limiti di età al suo successore, mons. Henry
Aruna. Ciò che non può dimenticare è la lunga storia spirituale e affettiva che lo
ha indissolubilmente legato al piccolo Stato africano, conosciuto sin da quando –
in veste di missionario saveriano – vi si recò già nel 1975. Una storia che il presule
ha ripercorso al microfono di Alessandro De Carolis, a partire dallo scoppio
delle violenze interne, nel 1991:
R. - Ricordo
anche lì dei momenti di grande sofferenza e di atrocità. Tutte le comunità sono state
disgregate. La grazia di Dio ci ha assistito e poi, anche insieme ad altre fedi religiose,
siamo potuti rimanere per promuovere la pace e la riconciliazione.
D.
– Di mons. Biguzzi possiamo dire che il mondo ricorda la sua guerra nella guerra,
per così dire, contro uno dei drammi peggiori: la piaga dei bambini-soldato…
R.
– Certamente. Quello che ho avvertito, come vescovo, è che appartenevo alla gente.
Dovevo stare con loro, perché questi bambini erano le prime vittime. Erano addestrati
ad uccidere e a sparare, si vedeva la confusione nei loro occhi. Ma quando poi si
sono sentiti avvicinati e amati, si sono aperti. La Chiesa è stata molto presente
in questi momenti di dolore, e io devo ringraziare anche l’aiuto che abbiamo avuto
dall’esterno - soprattutto dalla Chiesa italiana - nell’aiutare questi bambini-soldato
a reinserirsi nella società.
D. - Dopo la guerra, la pace. Il suo ruolo
cambia ancora: fino a quel giorno – che immagino da lei sperato a lungo – del 2003,
con la firma dell'Accordo tra governo e ribelli…
R. – Sì. Dopo la guerra
ci siamo trovati agli inizi di una nuova Sierra Leone e allora ci siamo impegnati
subito per la ricostruzione. Innanzitutto, per le strutture in campo scolastico, medico,
e così via. Poi abbiamo convocato il primo Sinodo diocesano, per puntare ed investire
sulle persone, specie i laici, la vita familiare, i giovani, le scuole. Siamo arrivati
al punto di fondare un’università. Inoltre, il grosso del lavoro della ricostruzione
ha riguardato la presenza nella Commissione Giustizia, pace e diritti umani. Vorrei
sottolineare un’altra cosa: oggi la nostra diocesi ha maturato anche un forte spirito
missionario. Noi cristiani, essendo di tante comunità, andiamo nei villaggi più vicini
e fondiamo un’altra comunità. Inoltre, dal punto di vista materiale, pur essendovi
55 mila cattolici in tutta le diocesi, abbiamo comunque raccolto quest’anno 19 mila
dollari in offerte per la Terra Santa per l’Obolo di San Pietro. Si comincia tre mesi
prima, piantando ad esempio arachidi, riso e patate, che poi si vendono e il loro
ricavato viene dato per le Giornate missionarie mondiali.
D. - Cosa
preferisce sottolineare di questi 25 anni di ministero, come lei diceva, "missionario"?
R.
- È certamente un momento di grande grazia perché è il Signore che agisce, che ci
ama. Noi, come Chiesa, vogliamo continuare a sostenerci l’un l’altro nel nostro cammino.
Ci piacerebbe, magari, essere maggiormente ascoltati sulle decisioni importanti che
riguardano il nostro futuro. Noi ci affidiamo a Dio, che ci tiene per mano. E questo
ci dà coraggio e pace. (bi)