Nuovi segnali di democratizzazione in Myanmar: concessa amnistia a 651 detenuti politici
Prosegue il processo di apertura del governo del Myanmar. Oggi è stata concessa l’amnistia
a 651 detenuti politici, che lasceranno la detenzione da venerdì prossimo. Recentemente
erano stati rilasciati già 347 prigionieri. Inoltre da segnalare l’accordo di cessate-il-fuoco
con i ribelli dell'Unione Nazionale Karen, che per oltre 60 anni hanno combattuto
per ottenere una maggiore autonomia della loro regione. Sul significato dell’intesa,
Giancarlo La Vella ha intervistato Stefano Caldirola, docente di Storia
contemporanea dell’Asia all’Università di Bergamo:
R. – Si tratta
di un evento storico. Basti ricordare che l’insurrezione delle aree Karen andava avanti
da ben 63 anni. Si tratta, quindi, di uno dei movimenti di guerriglia più longevi
in assoluto, nel mondo; e l’unico che non aveva mai sottoscritto un proprio accordo
con le autorità centrali del Myanmar.
D. – Quali sono le istanze della
popolazione Karen?
R. – Certamente, una gestione autonoma dei loro territori.
Va ricordato che i Karen godevano di una vasta autonomia nei propri territori all’epoca
del governo coloniale britannico che li aveva favoriti, come del resto molte altre
etnie di minoranza, in funzione anti-birmana, in funzione – quindi – di un riequilibrio
del nazionalismo birmano.
D. – La popolazione Karen è a maggioranza
cristiana: ci sono stati, in riferimento a questo, problemi particolari con il governo
birmano?
R. – Certamente. Il fattore religioso va a sovrapporsi al fattore
etnico e linguistico. I Karen sono una delle popolazioni entrate in contatto per prime
con i missionari. E’ una realtà in prevalenza cristiana, contrapposta a quella birmana,
che, invece, è profondamente legata ai valori del buddismo e ad un governo che, tradizionalmente,
è molto legato alle autorità religiose del buddismo.
D. – Possiamo dire
che con questo episodio continua il processo di democratizzazione del regime birmano?
R.
– Certamente. Questo rappresenta sicuramente un punto centrale e anche un segnale
al mondo del nuovo corso birmano, tanto che anche Aung San Suu Kyi, la storica leader
dell’opposizione, aveva ribadito la necessità di creare una Birmania unita, democratica,
in grado però di risolvere i problemi etnici e di rispettare le minoranze etniche.
D.
– La nuova Birmania che va formandosi rischia, secondo lei, di entrare nell’area di
controllo di qualche grande potenza?
R. – Secondo diversi osservatori,
questo nuovo corso birmano rappresenterebbe un tentativo di emanciparsi, almeno parzialmente,
dalla tutela cinese. La chiusura del Myanmar negli ultimi anni e le sanzioni occidentali
avevano portato il Paese, di fatto, tra le braccia di Pechino. Quindi, un tentativo
di riavvicinarsi all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti, per compensare in
qualche modo la preponderanza cinese. Non va sottovalutato, inoltre, il ruolo dell’India.
La posizione di Delhi era sempre stata “attendista” nel giudizio su Yangon, dando
fiducia ad un regime che era invece sempre più isolato tra le nazioni democratiche.
Ebbene: se veramente la Birmania proseguirà nel suo percorso di democratizzazione,
la linea indiana sarà risultata vincente, anche rispetto alla linea dei Paesi occidentali.
Non bisogna dimenticare, poi, che oggi la Cina è il principale investitore in Myanmar,
ma l’India rappresenta il principale mercato di esportazione per le merci birmane.
(gf)