Partito il pellegrinaggio dei vescovi europei e americani in Terra Santa
Condividere la vita pastorale della Chiesa in Terrasanta di fronte agli importanti
cambiamenti politici e socio-economici. E’ uno degli obiettivi dell’incontro annuale
del Coordinamento per la Terra Santa che prende ufficialmente il via domani ma che
già oggi a Gerusalemme prevede una serie di riunioni. Presenti membri e delegati di
numerose Conferenze episcopali del mondo dagli Stati Uniti all’Inghilterra e Galles.
Alina Tufani, collega della nostra sezione spagnola, ha intervistato mons.
Joan Enric Vives i Sicilia, vescovo di Urgell e delegato della Conferenza episcopale
spagnola:
R. - Siamo
in riunione e in ascolto. C’è una riflessione molto importante che faremo con il patriarca
latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, con il padre Custode di Terra Santa, padre
Pizzaballa, con il nunzio del Santo Padre in Terra Santa, mons. Franco, e altri. Lo
scopo è di condividere e vivere un’espressione attenta e feconda della comunione.
La Chiesa è comunione e dobbiamo viverla e farla vivere ai nostri fedeli, alle nostre
diocesi, ai nostri Paesi con i cristiani che sono in Terra Santa. Molti di loro soffrono
per le condizioni di vita e per tanti altri problemi legati alla mancanza di pace,
alla violenza, alla mancanza di lavoro. Vediamo che, in questo momento, anche Paesi
che confinano con la Terra Santa come l’Iraq, la Siria, il Libano e l’Egitto hanno
grandi problemi. I palestinesi, i cristiani palestinesi soprattutto, che vivono in
questi Paesi soffrono perché la maggioranza è musulmana e non sempre c’è rispetto
per la libertà religiosa.
D. - Sappiamo che tutto il 2011 è stato particolare
per la richiesta dei palestinesi di essere considerati uno Stato. Qualche piccolo
passo è stato fatto: pensa che di fronte a questi cambiamenti i cristiani in Terra
Santa possono avere una prospettiva migliore in una situazione più pacifica?
R.
– Aspettiamo, questa è però la nostra speranza. Da sempre, anche la posizione di molte
potenze mondiali rispetto alla questione è che Israele abbia tutto il diritto di essere
uno Stato – è un grande Stato – e che tuttavia, dall’altra parte, anche i palestinesi
abbiano il diritto di essere uno Stato. E i due Stati, Israele e Palestina, dovrebbero
vivere in pace. Pensiamo pure che la città di Gerusalemme debba avere uno statuto
regolato a livello internazionale e difeso. E’ una città santa per tutte e tre le
grandi religioni – ebrea, cristiana e musulmana – perciò dobbiamo conoscere meglio
quelle zone, ascoltando i nostri fratelli che là vivono ogni giorno. “Loro sono le
pietre vive”: dice il Santo Padre. Andiamo dunque in pellegrinaggio per dire a tutti
loro che noi siamo fratelli, che siamo uniti nello Spirito Santo, perché siamo una
sola Chiesa. Questo è il messaggio che noi vogliamo portare, ascoltarli e dire loro
che non sono soli: siamo vicini, siamo fratelli, siamo in una stessa comunione. (bi)
Saranno
molti, in questo pellegrinaggio dei vescovi, i momenti di confronto e di dialogo.
Al centro delle discussioni, anche l’impatto che la "primavera araba" ha avuto sul
conflitto israelo-palestinese, ma anche le prospettive del dialogo interreligioso
alla luce dell’incontro convocato dal Papa ad Assisi, lo scorso ottobre. La nostra
inviata al seguito dei presuli, Philippa Hitchen, ha chiesto a mons. Patrick
Kelly, arcivescovo di Liverpool e vicepresidente della Conferenza episcopale di
Inghilterra e Galles, quali sono i momenti più importanti di questo incontro :
R.
– I suppose the first highlight…. Suppongo che il primo momento saliente,
per me personalmente, come sempre sarà la visita a Nablus, alla parrocchia di San
Giuseppe, al pozzo in Samaria. Si sa che quello è un grande luogo di evangelizzazione
e penso che il Santo Padre abbia richiamato ad una nuova evangelizzazione. Quel dialogo
con la donna al pozzo ci insegna così tanto: è un dialogo che Gesù vuole avere con
tutti noi, che porta a quella meravigliosa professione di fede. Noi sappiamo che Lui
è il Salvatore del mondo, quindi Nablus è molto speciale.
D. – Questo
viaggio significa continuare un dialogo con la comunità cristiana locale…
R.
– It is but against I think… Lo è, ma di contro ci sono due differenze molto
significative. C’è quella che, descritta in vari modi, chiamiamo “primavera araba”
e che è una realtà che ha molti aspetti differenti, alcuni positivi e alcuni negativi,
per quanto riguarda le comunità cristiane. Quindi, questo farà parte delle nostre
conversazioni quest’anno. Secondo – e probabilmente collegato a questo – ho letto
delle difficoltà di molti cristiani in vari Paesi e questo ha influito sul tipo di
dialogo che intratteniamo con ebrei e musulmani. C’è un nuovo imperativo nel nostro
dialogo quest’anno. (ap)