La protesta delle donne scuote l'Egitto: gli Usa condannano le violenze dei militari
contro le dimostranti
Seggi aperti in Egitto per il ballottaggio della seconda tornata di elezioni legislative,
in un Paese sconvolto dalle proteste al Cairo che hanno fatto 14 morti in cinque giorni.
Ieri sono scese in piazza migliaia di donne per protestare contro le violenze subìte
in particolare dalle dimostranti. Una situazione che preoccupa anche gli Stati Uniti,
con il segretario di Stato, Hillary Clinton, che ha fermamente condannato le aggressioni
dei militari alle donne. Un rapporto, quello tra Washington e Il Cairo storicamente
saldo; ricordiamo, ad esempio, che il famoso discorso del presidente Obama al mondo
arabo fu pronunciato proprio nell’Università della capitale egiziana. Questa presa
di posizione così forte, da parte di Washington può di fatti scardinare questo legame?
Salvatore Sabatino ne ha parlato con Francesca Paci del quotidiano La
Stampa, che ha seguito la rivolta a Piazza Tahrir:
R. – Scardinarlo
è difficile. L’Egitto rimane un Paese assolutamente importantissimo e strategico soprattutto
per il mantenimento della pace con Israele. Anche oggi i Salafiti, il partito alla
destra dei Fratelli musulmani, che è stata la vera novità dei primi risultati delle
elezioni, ha detto che è intenzionato a mantenere il rapporto con Israele. Certamente
però se le discussioni e gli scontri dovessero andare avanti probabilmente Washington
non potrebbe che ritoccare al ribasso il finanziamento di circa due miliardi di dollari
che ogni anno versa all’Egitto, due terzi dei quali in particolare all’esercito.
D.
– Un Paese, l’Egitto, che vive un delicato momento di transizione dopo la fine dell’era
Mubarak, e che guarda al proprio futuro con speranza e timori. Come mai non si riesce
a placare la violenza? E’ frutto di questi timori?
R. – Ci sono diverse
forze in questo momento al lavoro in Egitto. Da una parte c’è l’esercito che, certamente,
continuando a dirsi il garante della transizione democratica, sta chiaramente dimostrando
di non voler rinunciare, non tanto al potere, ma certamente ai privilegi che da quel
potere derivano. Dall’altra c’è la fortissima affermazione dei partiti islamici, non
soltanto dei tanto temuti in Occidente “Fratelli musulmani”, ma soprattutto alla loro
destra i Salafiti, che menzionavamo prima. Forze che insieme hanno già dimostrato
di poter ottenere il 50 per cento dell’elettorato. Dall’altra parte ci sono poi i
liberali, quelli che erano in piazza i primi giorni della rivoluzione, i veri artefici
della caduta di Mubarak, che però peccano probabilmente di disorganizzazione, di incapacità
di allestire una vera e propria forza politica al di là della forza di rottura. Tutte
queste forze si inseriscono in un contesto, che è quello di un Medio Oriente in grande
fermento, dove certamente l’Occidente non può ignorare quello che sta succedendo anche
in Siria. Quindi se da una parte si è salutato l’Egitto, il più grande Paese dell’area,
che andava alle urne, dove vincevano gli islamisti, che però potevano anche andare
d’accordo con la democrazia, non si possono chiudere gli occhi su quello che sta succedendo
in questi ultimi giorni.
D. - Molti osservatori segnalano la crisi economica
che attanaglia il Paese con un settore portante come quello turistico che è praticamente
paralizzato. Quanto questo alimenta la tensione?
R. – Questo effettivamente
è un problema con cui anche i Fratelli musulmani - che sono il partito che ha ottenuto
la maggioranza dei seggi – devono fare i conti, tanto è vero che all’interno dei Fratelli
musulmani ci sono diverse forze, quelle più conservatrici e altre più disposte a tenere
in conto lo sviluppo economico. E’ proprio su questo che bisogna puntare veramente
lo sguardo, nel senso che Washington potrebbe esercitare anche a una pressione sull’esercito,
che già tempo fa ha rifiutato gli aiuti del Fondo monetario internazionale che volevano
sostenere l’Egitto al momento di crisi.(bf)