2011-12-17 14:51:31

Un anno fa la tragica vicenda di un venditore ambulante tunisino dava inizio alla "primavera araba"


Esattamente un anno fa accadeva in Tunisia un fatto che gli osservatori indicano come l’inizio della cosiddetta primavera araba: a Sidi Bouzid, un venditore ambulante - Mohamed Bouazizi - si dava fuoco in segno di protesta per le angherie subite dalla polizia. L’uomo morì il 4 gennaio 2011, a causa delle ustioni riportate. Il 14 gennaio, la protesta popolare, esplosa sulla scia di quella vicenda, causò la caduta del regime di Ben Ali. A seguire, le rivolte in diversi Stati, come Egitto, Libia, Algeria, Yemen, Siria. Un anno dopo, cosa si può dire sull’efficacia della primavera araba? Davide Maggiore lo ha chiesto a Stefano Torelli, responsabile dell’area Medio Oriente per il sito Equilibri.net e componente del centro italiano sull’islam politico:RealAudioMP3

R. – Il dato di fatto fondamentale è che le popolazioni di molti di questi Paesi si sono rese protagoniste più che di una rivoluzione vera e propria, di una rivolta che non ha precedenti nel mondo arabo, perché per la prima volta le popolazioni hanno fatto sentire la propria voce e a volte hanno anche introdotto risultati concreti, contro gli stessi loro governanti; mentre per tutti gli anni o i decenni precedenti, le proteste venivano brutalmente represse senza che anche da parte del mondo esterno ci fosse una grande attenzione, e poi venivano deviate contro altri bersagli – sempre esterni: l’Occidente, spesso Israele …

D. – In alcuni Paesi, come in Siria, le masse continuano a contrastare il potere. L’onda della primavera araba è destinata a durare o sono proteste residuali?

R. – Il caso della Siria ci dimostra proprio che non si tratta soltanto di proteste residuali, visto che gli scontri vanno avanti in maniera anche più intensa, nelle ultime settimane. Direi che forse si può analizzare un’altra dinamica, e forse può essere anche più preoccupante: cioè, il fatto che questa ondata di proteste man mano si è propagata, trasformandosi via via anche in vere e proprie resistenze se non in combattimenti armati.

D. – Nei Paesi in cui i vecchi regimi sono stati deposti ora la sfida per i movimenti è costruire un’alternativa democratica e politicamente credibile. I movimenti ne hanno la capacità e la forza?

R. – Io parlo del caso della Tunisia e dell’Egitto. Vi sono sicuramente dei movimenti che pian piano stanno anche maturando e possono aspirare a diventare anche le nuove forze politiche di questi Paesi. Il problema fondamentale è che questi movimenti sono quasi sempre stati, e sono rimasti essenzialmente, piattaforme di protesta senza però una vera e propria organizzazione a livello politico. E nel momento in cui, poi, i regimi sono caduti viene un po’ a mancare la presenza di questi movimenti riformatori che hanno partecipato, invece, in maniera così diretta ed attiva al momento delle proteste e delle rivolte. Per esempio, in Egitto tra partiti islamisti ed esercito, assistiamo ad un ritorno – sostanzialmente – delle forze conservatrici, che non necessariamente porteranno a fermare il processo di democratizzazione di questi Paesi, però sicuramente sono forze che già esistevano, che già avevano una loro base e che portano avanti istanze ben diverse dai protagonisti delle rivolte.

D. – In Occidente sono nati movimenti come quelli degli indignados o di “Occupy Wall Street”; anche in Russia vengono contestati in piazza i risultati delle legislative. Sono manifestazioni indirettamente figlie del risveglio arabo o si tratta di fenomeni non paragonabili?

R. – In qualche modo possono anche essere collegati tra di loro, come modalità di protesta. Sinceramente, non so quanto si possa dire che tutto derivi dal movimento cosiddetto della “Primavera araba”; in qualche modo sono collegate semplicemente nel senso che sfruttano il momento, se non altro perché anche il ruolo dei media sicuramente aiuta a dare più visibilità a questi movimenti. (gf)







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