Usa-Iraq, l'analista: ora comincia la fase più delicata
Relazioni tra Stati Uniti e Iraq al centro dell’incontro ieri alla Casa Bianca tra
il presidente, Barack Obama, e il premier iracheno, Nouri al Maliki. Con il ritiro
degli ultimi seimila soldati, termina dunque l’impegno militare degli Usa e Baghdad
recupera pienamente la propria sovranità territoriale. Una sovranità che non è comunque
al riparo dalle minacce provenienti dall’esterno, per fronteggiare le quali Washington
fornirà 18 caccia militari F-16. Ad Alessandro Colombo, docente di relazioni
internazionali presso l’Università statale di Milano, Stefano Leszczynski ha
chiesto quale tipo di rapporti si potranno costruire tra i due paesi ora che il conflitto
è terminato.
R. – L’avventura
è già da considerare fallimentare, da molti punti di vista. Ma quello che si vedrà
nei prossimi anni sarà l’impatto definitivo di questa impresa sulla stabilità non
soltanto dell’Iraq ma, attraverso l’Iraq, anche dell’intera regione. E, da questo
punto di vista, gli Stati Uniti ne sono perfettamente consapevoli: la fase politicamente
più fragile e delicata dell’impresa comincia proprio adesso.
D. – Professore,
un conflitto nato fondamentalmente sulla menzogna di un’amministrazione statunitense
che indicava armi di distruzione di massa in Iraq. Barack Obama ha liquidato la faccenda,
dicendo: “Sarà la storia a giudicare”...
R. – Dal punto di vista delle
motivazioni, la storia ha già giudicato. Tutta l’impresa è stata fondata su una serie
di menzogne, alcune delle quali anche decisamente ridicole. Questo è un capitolo già
chiuso, così come è anche tristemente chiuso il capitolo della sanzione della violazione:
gli Stati Uniti non sono stati minimamente sanzionati, come è ovvio, per una violazione
che è costata la vita a 100 mila esseri umani. Ma anche questa non è una novità, naturalmente,
perché la giustizia penale internazionale riguarda i deboli ma non ha mai riguardato
i forti. Quello che deciderà la storia sarà l’impatto politico: il disastro giuridico
è già avvenuto, e su questo la storia ha già detto tutto quello che doveva dire.
D.
– È più un’alleanza politico-strategica o un’alleanza militare, quella tra Stati Uniti
e Iraq?
R. – Direi sicuramente la prima cosa: l’obiettivo degli Stati
Uniti è naturalmente, da un lato, quello di conservare buone relazioni con il nuovo,
o per meglio dire, i nuovi governi iracheni, visto che è presumibile che dal punto
di vista della transizione politica, l’Iraq debba affrontare anche nuove tappe nei
prossimi mesi, nei prossimi anni. Il problema vero è proprio quello della stabilità
del quadro istituzionale iracheno: prima ancora della stabilità dei rapporti fra Stati
Uniti e Iraq, viene il capitolo della stabilità dell’Iraq; è questo, in realtà, l’elemento
più fragile delle relazioni.
D. – L’Iraq dovrebbe diventare un po’ un
nuovo Stato-cuscinetto nelle intenzioni americane tra Iran e Occidente. Riuscirà in
questa funzione, secondo lei?
R. – Quello che è certo è che l’Iran ha
una forte influenza, naturalmente, sull’Iraq e probabilmente ha sufficiente influenza
da poter determinare, almeno in parte, anche la futura stabilità dell’Iraq stesso.
Questo è uno dei paradossi che pesano da alcuni anni sulla stabilizzazione irachena:
gli Stati Uniti da un lato sono in conflitto aspro con l’Iran, ma dall’altro sono
perfettamente consapevoli che, senza l’Iran, un Iraq stabile in questo momento è pressoché
impossibile. (fd)