Il suicidio assistito di Lucio Magri: la riflessione di Ernesto Olivero
Ha suscitato vasta eco la decisione di Lucio Magri, 79 anni, giornalista, fondatore
del Manifesto e uomo politico, di ricorrere alla pratica del suicidio assistito in
una clinica svizzera. La scelta di Magri, che si è compiuta ieri, frutto di una grave
depressione, ma anche di una razionalità estrema, suscita contrapposizione tra chi
chiede di rispettare comunque la volontà dell’individuo e chi rifiuta la strada dell'eutanasia.
In definitiva il gesto di Magri pone a tutti il problema dell’approccio della persona
alla sofferenza. "L'ansia di aiutare a morire sembra la declinazione post moderna
della carità: appare compassionevole e pietosa – scrive oggi il quotidiano “Avvenire”-
noi, però, continuiamo a credere che carità è aiutare a vivere". E proprio del mistero
del dolore si è parlato ieri sera a Torino all’Università del Dialogo del Sermig,
realtà di fraternità fondata da Ernesto Olivero con la presenza della scrittrice
Susanna Tamaro. Adriana Masotti ha chiesto a Olivero una riflessione sulla
vicenda Magri:
R. – Ogni
volta che una persona muore, prego e faccio silenzio, perché so che Dio è Padre di
tutti gli uomini, di tutte le donne, di coloro che credono e di coloro che credono
di non credere. Quindi Lui sa… Certo che ogni morte fa pensare e una morte come questa
fa pensare ancora di più. Mi viene in mente uno dei pensieri che ho scritto in una
situazione molto tragica della mia vita, quando scrissi nel mio diario: l’uomo certamente
ha bisogno di casa, di lavoro, ma ha bisogno di scoprire il senso della vita, ha bisogno
di scoprire da dove viene e dove va. Io penso che la vita di ogni uomo – e sto parlando
di me stesso – sia una preparazione all’ultimo momento. Credo di aver capito un po’
la vita a forza di asciugare le lacrime, a forza di accogliere persone che mi guardavano
negli occhi e mi chiedevano qualcosa… La cosa principale che ho capito è che deve
far di tutto per cambiare un po’ il mondo.
D. – Il dolore fa parte
– e lo sappiamo – della vita di tutti, credenti e non credenti, e per tutti il dolore
non è bello e va quindi ricercato il modo per non soffrire; va anche accettato sul
piano umano ... ma ne siamo preparati?
R. – Io credo che dobbiamo preparare
le persone a vivere e a morire e dobbiamo preparare le persone a star vicino, fino
all’ultimo momento, alle persone che soffrono: nessuno deve essere abbandonato! Anche
perché oggi la sofferenza come veniva intesa una volta credo che sia quasi completamente
sparita, perché ci sono delle medicine e ci sono delle cure che possono alleviarla,
però è importante il rapporto umano. Io ricordo una giudice di Milano che – molti
anni fa - mi chiese se potevo accogliere un ragazzo con l’aids e mi disse: ti costerà
una cassa da morto e quindici giorni di lavoro. Io mi sono messo nei panni di questo
ragazzo e gli dissi: “Perché negli ultimi 15 giorni della tua vita non smetti di drogarti?
Noi ti assisteremo notte e giorno, momento dopo momento, non ti abbandoneremo mai!".
Lui ha accettato questa sfida e sono passati altro che quindici giorni: sono passati
quindici anni, sono passati venti anni ed è ancora vivo! Ecco l’insegnamento che io
mi diedi in quel momento: una famiglia, una comunità, un partito o un gruppo culturale
non devono assolutamente abbandonare un uomo o una donna che muore!
D.
– E’ giusto dire che il cristianesimo non invita ad amare il dolore e la Croce, ma
chiede invece di amare il Crocifisso e quindi Gesù in Croce, l’uomo in Croce?
R.
– Certamente. Proprio pochi giorni fa, una donna che aveva paura di morire e di lasciare
la sua famiglia e mi ha detto: “Mi dicono che devo amare il dolore…” E io gli ho detto:
“Non è giusto. Per amare Gesù bisogna amare Dio; il dolore non è da amare, ma – a
volte – è da sopportare. A volte è un nemico: Gesù stesso ha gridato sulla croce ...
(mg)