La Croce della Gmg nel carcere di Civitavecchia. Mons. Marrucci: i detenuti si aprano
alla speranza del Crocifisso risorto
Nuova tappa del pellegrinaggio della Croce della Gmg. Questa mattina è stata accolta
dai detenuti della Casa Circondariale di Civitavecchia. I ragazzi del Centro San Lorenzo,
accompagnati dal vescovo di Civitavecchia e dalle religiose canossiane, hanno pregato
insieme agli ospiti dell’Istituto di pena e raccontato, attraverso le dirette testimonianze,
la storia e il significato del simbolo per eccellenza delle Giornate Mondiali della
Gioventù. La cronaca della giornata nel servizio di Davide Dionisi.
Il carcere
è il luogo straordinario per conoscere l’uomo, nel suo mistero di bene e di male.
E’ un ambiente che non offre grandi risultati ma che riempie di senso il servizio
e il ministero di chi vi opera. E questo lo abbiamo verificato ancora una volta oggi,
nel penitenziario di Civitavecchia, dove è entrata per la prima volta la Croce della
Gmg. Accompagnata dal vescovo, mons. Luigi Marrucci, dal cappellano di Rebibbia, padre
Roberto Fornara e dai ragazzi del Centro San Lorenzo, il simbolo per eccellenza delle
Giornate Mondiali della Gioventù ha varcato le imponenti mura dell’Istituto di pena
della cittadina della provincia di Roma ed è stata accolta e portata in spalla, durante
la cerimonia della Via Crucis, dai suoi ospiti. Un evento che anticipa di fatto la
visita pastorale del Santo Padre alla Casa Circondariale “Nuovo Complesso di Rebibbia”
in programma per il 18 dicembre prossimo. Ci ha spiegato perché, mons. Luigi
Marrucci:
“La presenza di una croce, senza il Crocifisso,
ci fa pensare al Signore che è vivo, che è presente, che cammina con noi. E poi, ci
dice anche che dobbiamo prendere ogni giorno la nostra croce e portarla insieme a
lui. Il Cireneo è l’uomo che va dietro a Gesù, è il discepolo che va dietro al Maestro.
Ecco: siamo invitati anche noi a fare così. In qualche modo, vorremmo augurare agli
amici di Rebibbia che incontreranno il Santo Padre, di aprirsi alla speranza di sapere
che c’è un Signore risorto, vivente, Gesù, che ci accompagna, ma anche tanto amore
da parte di tanti fratelli che hanno bisogno e ai quali dobbiamo dare senso di speranza,
senso di vita, affetto, cordialità, incoraggiarli sempre”.
Ma perché
in una situazione come è quella delle nostre carceri, è sempre più difficile trovare
spazi per il cappellano e per la comunità cristiana esterna, e garantire il diritto
dei detenuti alla professione, alle attività complementari e a praticare la propria
fede? Ancora mons. Marrucci:
R. – Le cause
sono due. La prima: non sempre si trova un sacerdote disponibile a fare il cappellano
delle carceri. Con fatica ne ho trovato uno e l’ho nominato una settimana fa, per
questa casa circondariale. L’altro, poi, dipende dall’organizzazione interna, dalla
carenza degli agenti di custodia o comunque delle persone che debbono sorvegliare
e quindi si fatica. Però, la presenza del sacerdote è sempre un punto di riferimento
e mi ha fatto piacere che alcuni ospiti della Casa mi abbiano detto: “Ma il prete
non me lo manda?”. Ho detto loro: viene, e viene carico di amore, di attenzione per
voi, che sia davvero un fratello più grande che dà una mano per rileggere la propria
vita, battersi il petto, anche, perché tutti abbiamo bisogno di invocare misericordia
da Dio; ma soprattutto, di rilanciare speranza.
D. – Una pastorale carceraria,
se vuole essere veramente incisiva, non può non prescindere dal binomio carcere-territorio.
Se non c’è questo binomio, ovviamente fallisce il recupero e il reinserimento del
detenuto nella società. Come potenziare, secondo lei, tale impegno?
R.
– Con questo carcere è stato un tantino più difficile; con l’altro di via Tarquinia
c’è un progetto che ormai da tempo si sta attualizzando. Lì, il cappellano ha creato
una rete per cui molti detenuti, o durante le giornate o in certi periodi dell’anno,
escono e insieme alla Caritas sono stati fatti dei progetti. Quindi, c’è un inserimento
nel territorio e un avvio, anche, piano piano, per essere reinseriti pienamente nella
società. Sono dei tentativi che si fanno; dovremmo valorizzarli ancora di più. Chiediamo
alle istituzioni una maggiore attenzione. Da parte della Chiesa, c’è il nostro contributo
nel nome del Signore, a dare una mano a recuperare e ad incoraggiare sempre.
Quali
sono le difficoltà quotidiane che deve affrontare un direttore di un carcere? Risponde
Silvana Sergi, direttrice del carcere di Civitavecchia:
R. – Credo
che siano quelle di chiunque debba guidare una comunità, una comunità articolata,
una comunità in cui ci sono operatori, utenti, i detenuti … una realtà molto, molto
variegata e molto sfaccettata e, soprattutto, ai limiti della società.
D.
– Dalle precarie condizioni sanitarie ai limitati percorsi di reinserimento lavorativo,
la distanza tra il carcere e il mondo è sempre più ampia e i dati riguardo ai suicidi
è sempre allarmante. Come risponde Civitavecchia?
R. – Io credo che
gran parte del lavoro per migliorare tutto questo dipenda da noi. Se noi lo facciamo
in rete, lo facciamo in sinergia, lo facciamo insieme alla Asl, insieme alla città,
insieme alle istituzioni cittadine, queste distanze si accorciano sempre di più. Con
il coinvolgimento, con la trasparenza, con la rete, con una comunicazione onesta,
reale, queste distanze naturalmente si accorciano.
D. – Tra recupero
del condannato e sicurezza dei cittadini può esserci sinergia, o c’è solo contrapposizione?
R.
– No: c’è solo sinergia, perché proprio il recupero del detenuto è la sicurezza della
società e la sicurezza del cittadino. Se non c’è recupero non c’è sicurezza: è inevitabile.
D. – Che significato ha un evento come quello di oggi, cioè la Croce
della Gmg tra i detenuti?
R. – Quello di oggi è un evento preziosissimo.
Intanto, è un momento di riflessione in una vita frenetica anche in carcere: questo
è un dono, un dono prezioso. Un momento di riflessione su tutta la nostra realtà:
per noi, per gli operatori, per i detenuti ed è un momento di incontro di fede.
Come
si può annunciare Cristo in un contesto in cui la libertà umana, materiale e a volte
psicologica viene meno? Padre Roberto Fornara, cappellano di Rebibbia:
R. – La prima
condizione credo che sia proprio quella di annunciare la libertà che viene da Cristo,
cioè la libertà che viene da un cuore capace di amare, che scopre di essere amato
personalmente, con le parole di San Paolo “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso
per me”. Non c’è libertà se non libertà che parte dalla persona; non c’è libertà se
non nell’esperienza concreta di sentirsi amati, di sapersi amati così come siamo.
Se ogni persona scopre in Cristo l’amore troppo grande del Padre – per usare ancora
un’espressione di San Paolo nella Lettera agli Efesini – scopre anche nascere da sé
quella libertà di perdonare, la libertà di donarsi, la libertà di servire, di scegliere
l’ultimo posto … la libertà, in fondo, di amare a sua volta e di essere strumento
di misericordia. E questa libertà che si allarga a macchia d’olio e che costruisce
spazi, segmenti di libertà, dove questa libertà invece è costretta.
D.
– Tra i suoi compiti – quelli del cappellano – c’è quello di rompere l’isolamento
con il mondo esterno per riportare una finestra aperta, una speranza per ricominciare.
Come di riesce, con i limitati mezzi a disposizione?
R. – Non nascondo
che sia una fatica da cui ricominciare a ripartire ogni giorno. Ripartire da ogni
storia personale, ripartire da ogni possibilità concreta … grazie a Dio si sta attuando
una buona collaborazione con i sacerdoti, le religiose, i volontari, il diacono permanente,
con la struttura direzionale del carcere. Soltanto quando c’è questa sinergia anche
con gli educatori, con i volontari, soprattutto con la direzione, è possibile interessarsi
non a iniziative concrete, a iniziative singole, particolari, ma alla persona in quanto
tale. Quindi, ripartire sempre dalla persona nella sua concretezza, quindi partendo
dalle sue esigenze, da quel problema concreto, da quella possibilità che si apre …
Recentemente, siamo riusciti a fare un pellegrinaggio, per esempio, sui luoghi paolini:
una giornata, per coloro che potevano usufruire del permesso di uscita. Ed è stata
un’esperienza straordinaria di confronto umano, di fraternità tra gli stessi detenuti,
che non si riscontra a volte in tante comunità ecclesiali, in tante comunità parrocchiali
o in tante famiglie che si dicono cristiane. Ripartire da questa concretezza, da queste
piccole opportunità penso che sia la sfida di ogni giorno.
D. – Considerato
lo stato in cui versano i nostri istituti di pena, possiamo dire che quello del cappellano
è diventata una vera e propria missione sociale, prima ancora che religiosa?
R.
– Sì. Anche perché il compito del cappellano in queste condizioni è di portare prima
di tutto umanità là dove questa umanità viene ferita, calpestata, distrutta, sfidata.
Non nascondo che a volte nei nostri Istituti di pena ci sono condizioni veramente
disumane: di degrado umano, psicologico, sociale … Portare Cristo significa prima
di tutto riconsegnare l’uomo a se stesso, alla sua dignità. Giovanni Paolo II insisterebbe
molto, a questo proposito. Quindi, è un compito di testimonianza, di portatore di
umanità, che è lo stesso che portare Cristo e annunciare il Vangelo. (gf)