2011-11-26 15:46:49

La Croce della Gmg nel carcere di Civitavecchia. Mons. Marrucci: i detenuti si aprano alla speranza del Crocifisso risorto


Nuova tappa del pellegrinaggio della Croce della Gmg. Questa mattina è stata accolta dai detenuti della Casa Circondariale di Civitavecchia. I ragazzi del Centro San Lorenzo, accompagnati dal vescovo di Civitavecchia e dalle religiose canossiane, hanno pregato insieme agli ospiti dell’Istituto di pena e raccontato, attraverso le dirette testimonianze, la storia e il significato del simbolo per eccellenza delle Giornate Mondiali della Gioventù. La cronaca della giornata nel servizio di Davide Dionisi.RealAudioMP3

Il carcere è il luogo straordinario per conoscere l’uomo, nel suo mistero di bene e di male. E’ un ambiente che non offre grandi risultati ma che riempie di senso il servizio e il ministero di chi vi opera. E questo lo abbiamo verificato ancora una volta oggi, nel penitenziario di Civitavecchia, dove è entrata per la prima volta la Croce della Gmg. Accompagnata dal vescovo, mons. Luigi Marrucci, dal cappellano di Rebibbia, padre Roberto Fornara e dai ragazzi del Centro San Lorenzo, il simbolo per eccellenza delle Giornate Mondiali della Gioventù ha varcato le imponenti mura dell’Istituto di pena della cittadina della provincia di Roma ed è stata accolta e portata in spalla, durante la cerimonia della Via Crucis, dai suoi ospiti. Un evento che anticipa di fatto la visita pastorale del Santo Padre alla Casa Circondariale “Nuovo Complesso di Rebibbia” in programma per il 18 dicembre prossimo. Ci ha spiegato perché, mons. Luigi Marrucci:

“La presenza di una croce, senza il Crocifisso, ci fa pensare al Signore che è vivo, che è presente, che cammina con noi. E poi, ci dice anche che dobbiamo prendere ogni giorno la nostra croce e portarla insieme a lui. Il Cireneo è l’uomo che va dietro a Gesù, è il discepolo che va dietro al Maestro. Ecco: siamo invitati anche noi a fare così. In qualche modo, vorremmo augurare agli amici di Rebibbia che incontreranno il Santo Padre, di aprirsi alla speranza di sapere che c’è un Signore risorto, vivente, Gesù, che ci accompagna, ma anche tanto amore da parte di tanti fratelli che hanno bisogno e ai quali dobbiamo dare senso di speranza, senso di vita, affetto, cordialità, incoraggiarli sempre”.

Ma perché in una situazione come è quella delle nostre carceri, è sempre più difficile trovare spazi per il cappellano e per la comunità cristiana esterna, e garantire il diritto dei detenuti alla professione, alle attività complementari e a praticare la propria fede? Ancora mons. Marrucci:RealAudioMP3

R. – Le cause sono due. La prima: non sempre si trova un sacerdote disponibile a fare il cappellano delle carceri. Con fatica ne ho trovato uno e l’ho nominato una settimana fa, per questa casa circondariale. L’altro, poi, dipende dall’organizzazione interna, dalla carenza degli agenti di custodia o comunque delle persone che debbono sorvegliare e quindi si fatica. Però, la presenza del sacerdote è sempre un punto di riferimento e mi ha fatto piacere che alcuni ospiti della Casa mi abbiano detto: “Ma il prete non me lo manda?”. Ho detto loro: viene, e viene carico di amore, di attenzione per voi, che sia davvero un fratello più grande che dà una mano per rileggere la propria vita, battersi il petto, anche, perché tutti abbiamo bisogno di invocare misericordia da Dio; ma soprattutto, di rilanciare speranza.

D. – Una pastorale carceraria, se vuole essere veramente incisiva, non può non prescindere dal binomio carcere-territorio. Se non c’è questo binomio, ovviamente fallisce il recupero e il reinserimento del detenuto nella società. Come potenziare, secondo lei, tale impegno?

R. – Con questo carcere è stato un tantino più difficile; con l’altro di via Tarquinia c’è un progetto che ormai da tempo si sta attualizzando. Lì, il cappellano ha creato una rete per cui molti detenuti, o durante le giornate o in certi periodi dell’anno, escono e insieme alla Caritas sono stati fatti dei progetti. Quindi, c’è un inserimento nel territorio e un avvio, anche, piano piano, per essere reinseriti pienamente nella società. Sono dei tentativi che si fanno; dovremmo valorizzarli ancora di più. Chiediamo alle istituzioni una maggiore attenzione. Da parte della Chiesa, c’è il nostro contributo nel nome del Signore, a dare una mano a recuperare e ad incoraggiare sempre.

Quali sono le difficoltà quotidiane che deve affrontare un direttore di un carcere? Risponde Silvana Sergi, direttrice del carcere di Civitavecchia:RealAudioMP3

R. – Credo che siano quelle di chiunque debba guidare una comunità, una comunità articolata, una comunità in cui ci sono operatori, utenti, i detenuti … una realtà molto, molto variegata e molto sfaccettata e, soprattutto, ai limiti della società.

D. – Dalle precarie condizioni sanitarie ai limitati percorsi di reinserimento lavorativo, la distanza tra il carcere e il mondo è sempre più ampia e i dati riguardo ai suicidi è sempre allarmante. Come risponde Civitavecchia?

R. – Io credo che gran parte del lavoro per migliorare tutto questo dipenda da noi. Se noi lo facciamo in rete, lo facciamo in sinergia, lo facciamo insieme alla Asl, insieme alla città, insieme alle istituzioni cittadine, queste distanze si accorciano sempre di più. Con il coinvolgimento, con la trasparenza, con la rete, con una comunicazione onesta, reale, queste distanze naturalmente si accorciano.

D. – Tra recupero del condannato e sicurezza dei cittadini può esserci sinergia, o c’è solo contrapposizione?

R. – No: c’è solo sinergia, perché proprio il recupero del detenuto è la sicurezza della società e la sicurezza del cittadino. Se non c’è recupero non c’è sicurezza: è inevitabile.

D. – Che significato ha un evento come quello di oggi, cioè la Croce della Gmg tra i detenuti?

R. – Quello di oggi è un evento preziosissimo. Intanto, è un momento di riflessione in una vita frenetica anche in carcere: questo è un dono, un dono prezioso. Un momento di riflessione su tutta la nostra realtà: per noi, per gli operatori, per i detenuti ed è un momento di incontro di fede.

Come si può annunciare Cristo in un contesto in cui la libertà umana, materiale e a volte psicologica viene meno? Padre Roberto Fornara, cappellano di Rebibbia:RealAudioMP3

R. – La prima condizione credo che sia proprio quella di annunciare la libertà che viene da Cristo, cioè la libertà che viene da un cuore capace di amare, che scopre di essere amato personalmente, con le parole di San Paolo “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Non c’è libertà se non libertà che parte dalla persona; non c’è libertà se non nell’esperienza concreta di sentirsi amati, di sapersi amati così come siamo. Se ogni persona scopre in Cristo l’amore troppo grande del Padre – per usare ancora un’espressione di San Paolo nella Lettera agli Efesini – scopre anche nascere da sé quella libertà di perdonare, la libertà di donarsi, la libertà di servire, di scegliere l’ultimo posto … la libertà, in fondo, di amare a sua volta e di essere strumento di misericordia. E questa libertà che si allarga a macchia d’olio e che costruisce spazi, segmenti di libertà, dove questa libertà invece è costretta.

D. – Tra i suoi compiti – quelli del cappellano – c’è quello di rompere l’isolamento con il mondo esterno per riportare una finestra aperta, una speranza per ricominciare. Come di riesce, con i limitati mezzi a disposizione?

R. – Non nascondo che sia una fatica da cui ricominciare a ripartire ogni giorno. Ripartire da ogni storia personale, ripartire da ogni possibilità concreta … grazie a Dio si sta attuando una buona collaborazione con i sacerdoti, le religiose, i volontari, il diacono permanente, con la struttura direzionale del carcere. Soltanto quando c’è questa sinergia anche con gli educatori, con i volontari, soprattutto con la direzione, è possibile interessarsi non a iniziative concrete, a iniziative singole, particolari, ma alla persona in quanto tale. Quindi, ripartire sempre dalla persona nella sua concretezza, quindi partendo dalle sue esigenze, da quel problema concreto, da quella possibilità che si apre … Recentemente, siamo riusciti a fare un pellegrinaggio, per esempio, sui luoghi paolini: una giornata, per coloro che potevano usufruire del permesso di uscita. Ed è stata un’esperienza straordinaria di confronto umano, di fraternità tra gli stessi detenuti, che non si riscontra a volte in tante comunità ecclesiali, in tante comunità parrocchiali o in tante famiglie che si dicono cristiane. Ripartire da questa concretezza, da queste piccole opportunità penso che sia la sfida di ogni giorno.

D. – Considerato lo stato in cui versano i nostri istituti di pena, possiamo dire che quello del cappellano è diventata una vera e propria missione sociale, prima ancora che religiosa?

R. – Sì. Anche perché il compito del cappellano in queste condizioni è di portare prima di tutto umanità là dove questa umanità viene ferita, calpestata, distrutta, sfidata. Non nascondo che a volte nei nostri Istituti di pena ci sono condizioni veramente disumane: di degrado umano, psicologico, sociale … Portare Cristo significa prima di tutto riconsegnare l’uomo a se stesso, alla sua dignità. Giovanni Paolo II insisterebbe molto, a questo proposito. Quindi, è un compito di testimonianza, di portatore di umanità, che è lo stesso che portare Cristo e annunciare il Vangelo. (gf)







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