L’impegno dei Centri di aiuto alla vita, riuniti a Firenze per il convegno annuale
Il primo Centro di aiuto alla vita (Cav) fu aperto a Firenze nel 1975, oggi sono 300
sparsi in tutta Italia. La loro missione non è cambiata, ma è cresciuta specializzandosi
recentemente nell’accoglienza delle mamme immigrate in difficoltà. Mamme particolarmente
a rischio dato che il 30 per cento degli aborti che si praticano in Italia, circa
120 mila all’anno, riguarda proprio un bimbo straniero. E proprio a Firenze si sono
riuniti, in questi giorni, 500 tra operatori e volontari dei Cav per il loro Convegno
annuale sul tema: “Nessuna vita ci è straniera”. Adriana Masotti ne ha parlato
con Giuseppe Anzani, magistrato, vicepresidente del Movimento per la Vita italiano:
R. – Siamo
nati nel momento in cui la legge che aveva legalizzato l’aborto introduceva in Italia
questa ferita, questa piaga, nati – appunto – come soccorso, come aiuto alla vita
del bambino nel grembo della mamma come creatura più fragile, più debole, e aiuto
anche alla mamma in difficoltà, tentata a volte da un progetto abortivo in conseguenza
a difficoltà talvolta anche abbastanza facilmente rimontabili, se vi fosse stata un
poco di solidarietà. I Centri di aiuto alla vita sono questo segno. Nati in forma
modesta, oggi hanno raggiunto una capillarità, una presenza in tutto il nostro Paese:
il loro numero è superiore a 300. E io posso dire sinteticamente che, da quando sono
nati, il numero dei bambini salvati è di oltre 130 mila. 130 mila è una città, una
piccola città rispetto ai milioni di aborti che nel frattempo sono stati perpetrati.
Però è per ridire: la città della gioia! La fisionomia di questi centri è principalmente
quella di un’accoglienza umana. Non sono luoghi dove la gente viene giudicata, ma
dove il dramma umano della gente viene condiviso in un abbraccio che esplora, poi,
le possibilità concrete di aiuto che sono principalmente quelle di simpatie, di empatie,
di solidarietà. Poi ci sono anche quelle psicologiche, quelle che – soprattutto –
"estraggono" la persona dalla sua solitudine e spesso, anzi, quasi sempre il dramma
dell’aborto matura in una spaventosa solitudine. E anche un aiuto economico, un sostegno
perché a volte il progetto abortivo nasce dalle difficoltà della penuria, qualche
volta anche della miseria.
D. – “Nessuna vita ci è straniera” è il titolo
del Convegno a Firenze. Quale realtà in particolare vuol mettere in rilievo, questo
tema?
R. – Viene principalmente in mente, in modo spontaneo, il flusso
migratorio che ci ha un po’ inondato, che ha portato dentro i nostri confini queste
persone che noi continuiamo a chiamare “stranieri” o addirittura “extracomunitari”,
cioè qualcuno che è fuori: donne straniere, sempre più numerose, bussano alle porte
dei Centri di aiuto alla vita e ne ottengono appunto, uscendo dalla loro solitudine,
quel soccorso, quell’aiuto fraterno che il più delle volte favorisce il superamento
delle difficoltà. Però, c’è un concetto più profondo di “estraneità”, cioè di non
appartenenza, ed è il concetto che ci possono essere esseri umani in uno stadio del
loro sviluppo, della loro comparsa, che non sono avvertiti come una presenza fraterna,
ma a volte addirittura come una presenza conflittuale, quale che la loro più grande
sconvenienza sia quella di esistere, quindi turbare la pacata e serena esistenza d’altri.
Ecco, dire che “nessuna vita ci è straniera” significa interpretare con autenticità
quel grande dogma di uguaglianza giuridica tra tutti gli uomini e quel grande precetto
della solidarietà che per noi italiani, per la nostra Costituzione, è come una rivoluzione
promessa che supera – appunto – le disuguaglianze. In questo senso, non c’è straniero:
non solo chi viene da altri confini, ma non ci è straniero il bambino finché è ancora
nel grembo, non ci è straniero l’embrione che è già uno di noi. (gf)