2011-11-06 10:34:11

L’impegno dei Centri di aiuto alla vita, riuniti a Firenze per il convegno annuale


Il primo Centro di aiuto alla vita (Cav) fu aperto a Firenze nel 1975, oggi sono 300 sparsi in tutta Italia. La loro missione non è cambiata, ma è cresciuta specializzandosi recentemente nell’accoglienza delle mamme immigrate in difficoltà. Mamme particolarmente a rischio dato che il 30 per cento degli aborti che si praticano in Italia, circa 120 mila all’anno, riguarda proprio un bimbo straniero. E proprio a Firenze si sono riuniti, in questi giorni, 500 tra operatori e volontari dei Cav per il loro Convegno annuale sul tema: “Nessuna vita ci è straniera”. Adriana Masotti ne ha parlato con Giuseppe Anzani, magistrato, vicepresidente del Movimento per la Vita italiano:RealAudioMP3

R. – Siamo nati nel momento in cui la legge che aveva legalizzato l’aborto introduceva in Italia questa ferita, questa piaga, nati – appunto – come soccorso, come aiuto alla vita del bambino nel grembo della mamma come creatura più fragile, più debole, e aiuto anche alla mamma in difficoltà, tentata a volte da un progetto abortivo in conseguenza a difficoltà talvolta anche abbastanza facilmente rimontabili, se vi fosse stata un poco di solidarietà. I Centri di aiuto alla vita sono questo segno. Nati in forma modesta, oggi hanno raggiunto una capillarità, una presenza in tutto il nostro Paese: il loro numero è superiore a 300. E io posso dire sinteticamente che, da quando sono nati, il numero dei bambini salvati è di oltre 130 mila. 130 mila è una città, una piccola città rispetto ai milioni di aborti che nel frattempo sono stati perpetrati. Però è per ridire: la città della gioia! La fisionomia di questi centri è principalmente quella di un’accoglienza umana. Non sono luoghi dove la gente viene giudicata, ma dove il dramma umano della gente viene condiviso in un abbraccio che esplora, poi, le possibilità concrete di aiuto che sono principalmente quelle di simpatie, di empatie, di solidarietà. Poi ci sono anche quelle psicologiche, quelle che – soprattutto – "estraggono" la persona dalla sua solitudine e spesso, anzi, quasi sempre il dramma dell’aborto matura in una spaventosa solitudine. E anche un aiuto economico, un sostegno perché a volte il progetto abortivo nasce dalle difficoltà della penuria, qualche volta anche della miseria.

D. – “Nessuna vita ci è straniera” è il titolo del Convegno a Firenze. Quale realtà in particolare vuol mettere in rilievo, questo tema?

R. – Viene principalmente in mente, in modo spontaneo, il flusso migratorio che ci ha un po’ inondato, che ha portato dentro i nostri confini queste persone che noi continuiamo a chiamare “stranieri” o addirittura “extracomunitari”, cioè qualcuno che è fuori: donne straniere, sempre più numerose, bussano alle porte dei Centri di aiuto alla vita e ne ottengono appunto, uscendo dalla loro solitudine, quel soccorso, quell’aiuto fraterno che il più delle volte favorisce il superamento delle difficoltà. Però, c’è un concetto più profondo di “estraneità”, cioè di non appartenenza, ed è il concetto che ci possono essere esseri umani in uno stadio del loro sviluppo, della loro comparsa, che non sono avvertiti come una presenza fraterna, ma a volte addirittura come una presenza conflittuale, quale che la loro più grande sconvenienza sia quella di esistere, quindi turbare la pacata e serena esistenza d’altri. Ecco, dire che “nessuna vita ci è straniera” significa interpretare con autenticità quel grande dogma di uguaglianza giuridica tra tutti gli uomini e quel grande precetto della solidarietà che per noi italiani, per la nostra Costituzione, è come una rivoluzione promessa che supera – appunto – le disuguaglianze. In questo senso, non c’è straniero: non solo chi viene da altri confini, ma non ci è straniero il bambino finché è ancora nel grembo, non ci è straniero l’embrione che è già uno di noi. (gf)







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