Le indipendenze ottenute verso la fine degli anni 50, e soprattutto a partire dal
primo decennio degli anni 60-70, hanno rappresentato una rivoluzione inaspettata per
l'Africa, anche se in realtà spesse volte il processo di liberalizzazione è stato
portato avanti sotto l'egida delle stesse potenze coloniali, che hanno fatto di tutto
per trasformare i sistemi politici dei paesi neo-indipendenti in sistemi neocoloniali.
In molti casi, erano proprio le ex-potenze coloniali che sceglievano quale "africano"
mettere al potere in un paese neo-indipendente, o che tale sarebbe divenuto di lì
a poco. Le prime difficoltà venivano dal fatto che i colonizzatori non si erano mai
preoccupati della preparazione politica ed intellettuale di una classe dirigente locale,
che potesse un domani sostituirli nella gestione del potere. Anzi, alcuni Stati europei
avevano fatto di tutto per mantenere le popolazioni africane nell’ignoranza e nell’analfabetismo.
Non
mancarono capi africani che onestamente tentarono di governare per portare un vero
bene al Paese e alle popolazioni. Il caso di Julius Kambarage Nyerere - che ha guidato
la Tanzania e il Tanganyka all’indipendenza e che ha governato il Paese nei primi
anni, dal 1964 al 1985, per poi deporre volontariamente il potere - resta esemplare
nella storia. Un altro caso è quello di Leopold Sedar Senghor, presidente del Senegal
dal 1960 e che lasciò anche lui liberamente il potere, in una situazione divenuta
ormai politicamente stabile.
Tuttavia, tra i primi presidenti africani, ci
sono state anche figure meno lodevoli, opportunisti che hanno favorito gli interessi
delle potenze straniere attraverso l’adozione di un sistema neocoloniale, accompagnato
dall’introduzione del nepotismo, della corruzione e della propria “eternizzazione”
al potere.Diversi Paesi hanno acceduto all'indipendenza senza passare per le elezioni
e in altri casi le votazioni sono state truccate. È in questo clima che numerosi capi
di governo dei nuovi stati africani sono stati uccisi, ancor prima che potessero mettere
in funzione un sistema politico-amministrativo autonomo. Il caso più drammatico è
stato quello della Repubblica Democratica del Congo (ex- Zaire), dove dal 1960 al
2001 sono stati sistematicamente uccisi sia i capi di governo, sia i leader dell’opposizioni
tra i quali Patrice Lumumba, Joseph Kasavubu, Moise Tshombe, Mobutu Sese Seko (morto
all’estero, dopo esser stato deposto dal potere) fino a Laurent Joseph Kabila (padre
dell’attuale presidente Joseph Kabila), assassinato in strane circostanze, il 18 gennaio
2001. Nei primi anni delle indipendenze africane troviamo moltissimi casi simili a
questo dell’ex-Zaire, attuale Repubblica Democratica del Congo.
Queste “distorsioni”
della politica si sommavano ad una situazione già storicamente complessa e complicata
dal dramma della “spartizione dell’Africa”, avvenuta sin dalla Conferenza di Berlino
(1884 - 1885), tra le grandi potenze coloniali. Tale logica ha creato delle frontiere
artificiali che in molti casi dividevano a metà, o in più parti, gli antichi imperi
o regni africani e interi gruppi etnici o tribali, indebolendo ancora di più l’unità
politica e sociale delle nuove nazioni africane. Le infinite frammentazioni conseguenti
- già sfruttate dai colonizzatori sotto il principio del divide et impera -
hanno creato confusione e divisioni interne favorendo, in molti casi, l’accesso al
potere di coloro i quali si dimostravano più vulnerabili e facili da manipolare dalle
antiche potenze coloniali, al fine di rispondere ai propri interessi politico-economici.
Il caso del massacro del Ruanda, che oppose gli Hutu e i Tutsi, è uno dei più sanguinosi
episodi della storia politica del . Dal alla metà di luglio del , per quattro mesi
consecutivi, vennero massacrati tra 800.000 e 1.000.000 persone (a colpi di , pangas
e bastoni chiodati). Le vittime furono prevalentemente e moderati, che gli estremisti
definivano traditori. Anche se alcune dispute e divisioni interne si erano
manifestate già prima della dominazione europea, certo è che per tutta la fase coloniale
e post-coloniale la Francia ha appoggiato i Tutsi, numericamente minoritari ma considerati
"razza superiore" rispetto agli Hutu, favorendone la permanenza al potere.
Altre
distorsioni al regolare sviluppo politico interno del continente furono portate dalla
Guerra Fredda, e dalla conseguente strategia dell'allineamento forzato, che obbligava
le giovani nazioni africane a stare “o dalla parte dell’Occidente capitalista o dalla
parte del Blocco comunista Russo sovietico”. Così, in Africa sorsero profonde opposizioni
e forti tensioni regionali, scoppiarono guerre fra stati e insormontabili conflitti
civili interni alle nazioni. Per lungo tempo l’ingerenza neocolonialista è stata portata
avanti tramite la strategia dei colpi di stato, quasi sempre appoggiati o addirittura
"pilotati" dall'esterno, ad esempio attraverso la fornitura di armi alla parte che
accettava di favorire gli interessi politici o economici delle antiche potenze coloniali.
Nel periodo che va dal 1994 al 2008, tra il golpe del Gambia (1994) e quello della
Mauritania (2008), ci sono stati ben 15 colpi di stato, tutti caratterizzati da una
interruzione brusca e violenta di amministrazioni che lavoravano all'istituzione e
strutturazione dei nuovi governi, o che lottavano contro la corruzione interna.
Qualunque
valutazione sullo sviluppo della democrazia moderna in Africa, dunque, deve tenere
in considerazione il particolare percorso storico del continente, che si può riassumere
e conduce alle seguenti conclusioni:
1) finora la democrazia importata non
ha funzionato, e certamente non funzionerà mai
2) le crisi parallele al sistema
neocoloniale, ossia le dispute tra regioni e stati del continente, dovevano essere
risolte all'interno dell’Africa e dei Paesi in questione, in base alle culture tradizionali
e alle pratiche di riconciliazione;
3) la democrazia e lo sviluppo sono possibili
e molte nazioni africane - come Ghana, Sudafrica, Capo Verde e le Isole Mauritius,
ne stanno dando esempio;
4) negli ultimi tempi la democrazia in Africa si sta
imponendo in maniera autonoma rispetto al resto del mondo, a partire dalle istanze
del basso, come nel caso della cosiddetta “Primavera araba”. In questi casi le classi
dirigenti locali e di tutto il mondo sono obbligate a prendere atto delle rivendicazioni
delle rivoluzioni popolari, che cercano di indurre dei cambiamenti - a volte di rovesciare
regimi dittatoriali - senza appellarsi all'aiuto (o all'interferenza) di politici
interni ed esterni.
A cura di Moisés Malumbu, del programma
portoghese per l'Africa.