Elezioni in Kirghizistan, un Paese non ricco ma in posizione strategica
Si svolgono oggi nella repubblica centroasiatica del Kirghizistan le elezioni presidenziali.
Le consultazioni arrivano a poco più di anno dall’allontanamento al potere dell’ex-presidente
Bakiev, al quale erano seguiti mesi di scontri di matrice etnica tra la maggioranza
kirghisa e la minoranza uzbeka nel Paese. Sul contesto politico e sulle conseguenze
del voto Michele Raviart ha intervistato Fulvio Scaglione, vice-direttore
di Famiglia Cristiana ed esperto di politica internazionale.
R. – Intanto
la caratteristica più evidente di queste elezioni presidenziali in Kirghizistan è
l’estrema frammentazione del quadro. Questa frammentazione non è senza radici e deriva
dal fatto che il Kirghizistan è stato scombussolato per due volte nel giro di pochi
anni: per la prima volta nel 2005 quando il presidente Akaiev è stato sostituito dall’altro
presidente Bakiev e poi nel 2010 quando Bakiev ha fatto la stessa fine di Akaiev ed
è stato sostituito da una presidentessa, Rosa Otunbaieva.
D. - Quali
sono i candidati favoriti per questa elezione e quali sono i loro programmi?
R.
– Sono iscritti 83 candidati, anche se poi tutto verrà ridotto probabilmente ad una
gara contro il premier Atambaiev. Sostanzialmente la questione è di vedere con quanto
consenso vincerà Atambaiev piuttosto che discutere se vincerà o no. I programmi politici
da queste parti sono grandi ipotesi generaliste. La vera questione sarà se spostare
il Paese più verso l’influenza americana - con tutti i riflessi che questo può avere
sull’Afghanistan, perché il Kirghizistan è la retrovia americana alle operazioni in
Afghanistan - o se spostare l’influenza verso la Russia.
D. - Cosa ha
da offrire il Kirghizistan alle grandi potenze internazionali?
R. –
L’unico bene che può in qualche modo mettere sul mercato il Kirghizistan è la sua
posizione strategica. Gli Stati Uniti hanno una base militare a Manas, la Russia anche
e ha in progetto di costruirne un’altra. Il Kirghizistan, che non ha risorse naturali,
ondeggia tra l’uno e l’altro interlocutore andando a caccia di dollari, di favori;
i dollari sono degli americani e i favori sono quelli russi, che adesso per recuperare
il Kirghizistan nella propria orbita promettono di inserirlo in un’unione doganale
molto favorevole.
D. - Queste elezioni potranno ricomporre le varie
tensioni che si sono verificate lo scorso anno tra le varie etnie?
R.
- Credo che da queste parti il problema della frammentazione secondo linee di faglia
etniche, tribali, claniche, sia ancora lungi dall’essere superato. Nel tenerle vive,
nell’alimentarle, conta molto proprio il fatto che in Asia centrale chi comanda prende
tutto, diventa il padrone delle risorse naturali, diventa il padrone dei posti di
lavoro forniti dallo Stato e quindi può beneficiare il proprio clan, la propria etnia
e danneggiare pesantemente quelle rivali.
D. - Questa frammentazione
può favorire l’estremismo religioso?
R. – Questo rischio c’è ed è un
rischio che aleggia su tutta l’area e, come ben sappiamo, parlando, per esempio, della
primavera araba, non solo sull’Asia centrale. E’ uno dei fattori di instabilità perché
dato che si tratta di sistemi in cui il tasso di democrazia è variabile, non è solidificato
come in Europa e in altre parti del mondo, spesso il problema dell’estremismo si risolve
con un altro estremismo: cioè, con regimi autocratici o tendenzialmente autocratici,
il che provoca ulteriore insoddisfazione. E’ una bilancia molto difficile da tenere
in equilibrio. La storia più recente del Kirghizistan lo dimostra perché la stabilità,
certamente, non è ancora un bene garantito. (bf)