L’Africa, dalla Democrazia Tradizionale alla Democrazia moderna
La Democrazia Tradizionale in Africa. L’Africa continua a essere vittima
della rappresentazione fornita da storici, antropologi e filosofi come Hegel, per
i quali il continente non potrà mai realizzare una vera democrazia perché “non ha
storia”. E non ha storia perché non ha una tradizione scritta tramite la quale dimostrare
il suo passato prima dell’arrivo dei “conquistadores”. D'altronde - afferma ancora
Hegel – l’Africa non ha sviluppato una sua filosofia, ed essendo la democrazia necessariamente
figlia di un pensiero filosofico libero, autonomo, creativo, strutturato e pedagogico,
è naturale comprendere perché l’Africa non abbia adottato questa specifica forma politica.
Il filosofo insiste e articola il suo pensiero, sottolineando inoltre che la schiavitù,
praticata sin da tempi remoti in Africa, è incompatibile con la democrazia. E conclude
questo suo ragionamento con le seguenti affermazioni: ciò che possiamo imparare
dai negri è che lo Stato di natura è uno stato di totale ingiustizia e che ogni passo
tra lo stato naturale e quello razionale comporta delle ingiustizie, ma nello stesso
tempo c’è un graduale allontanamento dalla dimensione naturale. La tratta transatlantica
di schiavi è esistita per volontà degli africani stessi, perché i capi africani hanno
voluto vendere agli occidentali tutti i sudditi neri, levando loro ogni possibile
libertà di pensiero e di espressione.
Purtroppo, queste gravissime accuse
di Hegel puntano a corroborare la tesi secondo la quale sarebbe nella natura dell’Africano
l’incapacità di accedere alla democrazia, e di praticarla. Tali credenze sono state
condivise da quasi tutti i conquistatori d’Africa, consolidate da molti “illuministi”
occidentali e adottate come fondamento teorico per giustificare la colonizzazione
del continente, la cancellazione del sapere e delle organizzazioni sociali, politiche
ed economiche che gli africani stessi avevano messo in piedi, prima dell’arrivo dei
colonizzatori.
A questo scenario si è aggiunta la teoria della linearità
della storia: l’inizio della storia si fa corrispondere al momento in cui sono
emerse le potenze europee, e i suoi sviluppi successivi vengono legati all’opera dell’Occidente
“civilizzato” e “civilizzatore” dei “popoli senza storia”. Stando a queste concezioni,
un’eventuale storia degli africani sarebbe necessariamente “non lineare”, in quanto
avrebbe avuto inizio solo nel momento in cui essi sono entrati in contatto con i conquistatori.
Non a caso, i cosiddetti “esploratori” (come il portoghese Diego Cão) hanno cominciato
a dare nomi nuovi a tutto ciò che trovavano nelle terre africane: i nuovi appellativi
occidentali dati agli africani, ai loro fiumi, alle loro montagne e ai loro laghi
(come Lago Vittoria o la città angolana di Nuova Lisbona) hanno sostituito
gli originali nomi tradizionali, anche riferiti a personalità valorose africane, causandone
negli anni la scomparsa dalla cultura locale. Ma in Africa la storia di una persona,
la storia di un re, la storia di un importante personaggio per la società e perfino
la storia di un luogo e di una nazione è strettamente collegata al nome che gli si
attribuisce. Chi conosce il significato del nome conosce automaticamente la storia
di un determinato elemento o persona.
L’Africa non è soltanto culla dell’umanità;
da sempre il continente è stato anche protagonista di avvicendamenti di governi e
di amministrazioni, che confermano l’esistenza di un’antica e prolungata pratica della
politica e della democrazia a livello locale, concepita come esercizio del potere
plebiscitario del popolo. Come suggerisce il tradizionale proverbio - noto ovunque
nel continente - “la tartaruga non si mette a parlare dal pulpito, se non trova
chi ce la mette” (ossia senza il consenso degli altri), è il popolo che decreta
le leggi, che nomina coloro i quali avranno il compito di farle osservare e di amministrare. Nella
storia di tutta l’Africa Occidentale, Centrale e Australe troviamo numerosi esempi
di sistema di governo altamente sofisticato: gli antichi regni del Ghana, i regni
yoruba di Oyo e Benin, i vari regni della Nigeria, del Mali, dei due Congo a Nord
dell’Angola e i 22 regni degli Ovimbundu (che rappresentavano una federazione articolata
sotto il comando di una unica capitale, Bilundo) sono solo alcuni degli esempi che
evocano una grande organizzazione e una lunga esperienza nel campo della pratica politica.
Grazie ad essa, numerose società tradizionali hanno saputo organizzare resistenze
armate capaci di respingere il colonialismo occidentale. Per fornire ancora un
ultimo aneddoto, nell’antico Regno del Congo - ai confini dei due Congo e che oggi
corrisponde ad un’area compresa nel territorio angolano - troviamo la straordinaria
storia del cosiddetto “Re Cattolico africano” (Mwnba Nzinga), battezzato col nome
di Don Afonso I. Come evocato da Papa Giovanni Paolo II nel giugno del 1992 - in occasione
di uno dei sui viaggi in Africa - nel 1513 questo Re inviò al Papa Leone X un'ambasciata,
della quale faceva parte anche il diciottenne figlio Henrique: il suo progetto era
rendere la Chiesa del regno direttamente dipendente da Roma. Cinque anni dopo il principe
Henrique fu nominato vescovo titolare di Utica: fu il primo vescovo dell'Africa nera,
dopo appena trent'anni di evangelizzazione, e l'ultimo per i successivi quattro secoli.
Purtroppo, il Congo era in quel momento una colonia europea e l’isola di São Tomé
era stata trasformata in capitale del traffico negriero, con le potenze coloniali
che non accettavano in nessun modo tale rapporto privilegiato tra la Chiesa del regno
e la Santa Sede. Così la grande idea di Mwemba Nzinga (Don Afonso I) – fondare
uno Stato tutto cristiano nel Centro dell’Africa - venne repressa sul nascere a causa
della frenetica escalation della tratta degli schiavi.
A cura di Moises
Malumbu, del programma portoghese per l’Africa.