2011-10-25 09:43:36

L’Africa, dalla Democrazia Tradizionale alla Democrazia moderna


La Democrazia Tradizionale in Africa.
L’Africa continua a essere vittima della rappresentazione fornita da storici, antropologi e filosofi come Hegel, per i quali il continente non potrà mai realizzare una vera democrazia perché “non ha storia”. E non ha storia perché non ha una tradizione scritta tramite la quale dimostrare il suo passato prima dell’arrivo dei “conquistadores”. D'altronde - afferma ancora Hegel – l’Africa non ha sviluppato una sua filosofia, ed essendo la democrazia necessariamente figlia di un pensiero filosofico libero, autonomo, creativo, strutturato e pedagogico, è naturale comprendere perché l’Africa non abbia adottato questa specifica forma politica. Il filosofo insiste e articola il suo pensiero, sottolineando inoltre che la schiavitù, praticata sin da tempi remoti in Africa, è incompatibile con la democrazia. E conclude questo suo ragionamento con le seguenti affermazioni: ciò che possiamo imparare dai negri è che lo Stato di natura è uno stato di totale ingiustizia e che ogni passo tra lo stato naturale e quello razionale comporta delle ingiustizie, ma nello stesso tempo c’è un graduale allontanamento dalla dimensione naturale. La tratta transatlantica di schiavi è esistita per volontà degli africani stessi, perché i capi africani hanno voluto vendere agli occidentali tutti i sudditi neri, levando loro ogni possibile libertà di pensiero e di espressione.

Purtroppo, queste gravissime accuse di Hegel puntano a corroborare la tesi secondo la quale sarebbe nella natura dell’Africano l’incapacità di accedere alla democrazia, e di praticarla. Tali credenze sono state condivise da quasi tutti i conquistatori d’Africa, consolidate da molti “illuministi” occidentali e adottate come fondamento teorico per giustificare la colonizzazione del continente, la cancellazione del sapere e delle organizzazioni sociali, politiche ed economiche che gli africani stessi avevano messo in piedi, prima dell’arrivo dei colonizzatori.

A questo scenario si è aggiunta la teoria della linearità della storia: l’inizio della storia si fa corrispondere al momento in cui sono emerse le potenze europee, e i suoi sviluppi successivi vengono legati all’opera dell’Occidente “civilizzato” e “civilizzatore” dei “popoli senza storia”. Stando a queste concezioni, un’eventuale storia degli africani sarebbe necessariamente “non lineare”, in quanto avrebbe avuto inizio solo nel momento in cui essi sono entrati in contatto con i conquistatori. Non a caso, i cosiddetti “esploratori” (come il portoghese Diego Cão) hanno cominciato a dare nomi nuovi a tutto ciò che trovavano nelle terre africane: i nuovi appellativi occidentali dati agli africani, ai loro fiumi, alle loro montagne e ai loro laghi (come Lago Vittoria o la città angolana di Nuova Lisbona) hanno sostituito gli originali nomi tradizionali, anche riferiti a personalità valorose africane, causandone negli anni la scomparsa dalla cultura locale. Ma in Africa la storia di una persona, la storia di un re, la storia di un importante personaggio per la società e perfino la storia di un luogo e di una nazione è strettamente collegata al nome che gli si attribuisce. Chi conosce il significato del nome conosce automaticamente la storia di un determinato elemento o persona.

L’Africa non è soltanto culla dell’umanità; da sempre il continente è stato anche protagonista di avvicendamenti di governi e di amministrazioni, che confermano l’esistenza di un’antica e prolungata pratica della politica e della democrazia a livello locale, concepita come esercizio del potere plebiscitario del popolo. Come suggerisce il tradizionale proverbio - noto ovunque nel continente - “la tartaruga non si mette a parlare dal pulpito, se non trova chi ce la mette” (ossia senza il consenso degli altri), è il popolo che decreta le leggi, che nomina coloro i quali avranno il compito di farle osservare e di amministrare.
Nella storia di tutta l’Africa Occidentale, Centrale e Australe troviamo numerosi esempi di sistema di governo altamente sofisticato: gli antichi regni del Ghana, i regni yoruba di Oyo e Benin, i vari regni della Nigeria, del Mali, dei due Congo a Nord dell’Angola e i 22 regni degli Ovimbundu (che rappresentavano una federazione articolata sotto il comando di una unica capitale, Bilundo) sono solo alcuni degli esempi che evocano una grande organizzazione e una lunga esperienza nel campo della pratica politica. Grazie ad essa, numerose società tradizionali hanno saputo organizzare resistenze armate capaci di respingere il colonialismo occidentale.
Per fornire ancora un ultimo aneddoto, nell’antico Regno del Congo - ai confini dei due Congo e che oggi corrisponde ad un’area compresa nel territorio angolano - troviamo la straordinaria storia del cosiddetto “Re Cattolico africano” (Mwnba Nzinga), battezzato col nome di Don Afonso I. Come evocato da Papa Giovanni Paolo II nel giugno del 1992 - in occasione di uno dei sui viaggi in Africa - nel 1513 questo Re inviò al Papa Leone X un'ambasciata, della quale faceva parte anche il diciottenne figlio Henrique: il suo progetto era rendere la Chiesa del regno direttamente dipendente da Roma. Cinque anni dopo il principe Henrique fu nominato vescovo titolare di Utica: fu il primo vescovo dell'Africa nera, dopo appena trent'anni di evangelizzazione, e l'ultimo per i successivi quattro secoli. Purtroppo, il Congo era in quel momento una colonia europea e l’isola di São Tomé era stata trasformata in capitale del traffico negriero, con le potenze coloniali che non accettavano in nessun modo tale rapporto privilegiato tra la Chiesa del regno e la Santa Sede.
Così la grande idea di Mwemba Nzinga (Don Afonso I) – fondare uno Stato tutto cristiano nel Centro dell’Africa - venne repressa sul nascere a causa della frenetica escalation della tratta degli schiavi.

A cura di Moises Malumbu, del programma portoghese per l’Africa.







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