Dieci anni fa, il 7 ottobre 2001, l’allora presidente statunitense George W. Bush
impartì l’ordine di attacco in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell'11 settembre.
Le finalità della Casa Bianca, in quel momento, furono quelle di uccidere Bin Laden,
considerato la mente degli attentati sul suolo americano, far cadere il regime talebano
e normalizzare il Paese. Oggi, a dieci anni di distanza, alcuni di quegli obiettivi
sono stati raggiunti, ma l’Afghanistan resta ancora diviso da conflitti economici,
culturali e religiosi, colpito da attentati e raid contro i civili. Decine di migliaia
sono stati i morti in questo decennio. Salvatore Sabatino ne ha parlato con
Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica presso l’Università Cattolica di
Milano:
R. – E’ stata
– come dire – una lunga campagna che ha viso fasi diverse. Una prima fase, molto breve,
di guerra contro i talebani, con una rapida loro sconfitta – apparente sconfitta,
ahimé – e poi una lunga fase, diversi anni, di ricostruzione del Paese condotta malissimo.
Ci siamo distratti troppo per altri eventi e abbiamo ripreso seriamente in mano la
questione afghana solo a partire dal 2008-2009, quando probabilmente era già troppo
tardi e c’erano già chiari segnali di un sostanziale fallimento della nostra missione.
D.
– Lei diceva: siamo stati distratti da altri eventi. Probabilmente siamo stati distratti
un po’ troppo dall’Iraq. Quanto ha influito questo sulla brutta condotta in Afghanistan?
R.
– Troppo, perché l’Iraq non è stato soltanto “un’altra” guerra, è stata una guerra
che ha assorbito – e enormemente – le forze statunitensi, ma è stata una guerra che
ha rotto il fronte della comunità internazionale, ha diviso alleati che combattevano
assieme in Afghanistan. In Afghanistan, per anni, troppo pochi uomini, troppo pochi
mezzi, troppo pochi soldi, soprattutto una strategia confusa che non ha puntato soprattutto
a dare sostegno e risposte agli afghani comuni e ha sostenuto troppo, invece, un’élite
politica corrotta e inconcludente come quella attualmente al potere.
D.
– Dobbiamo dire che, in tutto questo, il presidente Karzai appoggiato dagli Stati
Uniti, in questi anni ha tentato un colloquio con i talebani, soprattutto nel momento
in cui si è accorto che non erano usciti di scena del tutto. Invece, le ultime notizie
parlano di una rottura completa dei contatti. A che punto siamo, oggi?
R.
– Siamo ad un punto molto confuso. Karzai ha deluso enormemente le aspettative: non
ha dato benessere, non ha contrastato la corruzione, con i talebani ha avuto un atteggiamento
troppo duro all’inizio, probabilmente, e poi man mano che diventava chiaro il loro
“ritorno”, ha cercato compromessi e trattative. Il fatto è che “taleban” è una parola
che dice poco o nulla, ma sotto vi sono tantissimi gruppi diversi. Con alcuni ci si
può trattare, perché vogliono soldi, poteri e prebende. Altri sono più fortemente
ideologizzati. Ora, con il declino dell’interesse occidentale, la stanchezza dopo
dieci anni di guerra, la mia percezione è che sempre più gruppi di insorti puntino
alla vittoria totale, dopo che gli occidentali se ne saranno andati.
D.
– In tutto questo, il Paese ancora oggi – a distanza di anni – è lontano dalla normalizzazione,
ed è un Paese che svolge tutte le proprie attività amministrative con una base di
corruzione altissima. Come riuscirà a risolvere i suoi problemi?
R.
– L’Afghanistan è sempre stato un Paese fragile perché vi sono tantissime etnie in
profonda rivalità, perché il centro non ha mai controllato le periferie … E devo dire
che 30 anni e più di guerra civile dopo l’invasione sovietica del ’79, hanno distrutto
le prospettive di futuro di questo Paese e hanno fatto emergere tutto il peggio. Questo
non significa far perdere le speranze: io credo che si debba aiutare non per proporre
modelli irrealistici, ma per cercare di far tornare le parti migliori delle popolazioni
afghane, riducendo l’arbitrio, riducendo la corruzione, e dando soprattutto prospettive
socio-economiche credibili alla popolazione normale. (gf)