Il presidente dei vescovi indonesiani incontra il Papa: la nostra Chiesa è viva nonostante
i fondamentalisti
La vita della Chiesa in Indonesia al centro dell’udienza concessa stamane dal Papa,
nel Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, al presidente dei vescovi del Paese asiatico,
mons. Martinus Dogma Situmorang, vescovo di Padang, in visita ad Limina Apostolorum.
Lisa Zengarini ha intervistato il presule sulle sfide pastorali emergenti nella
società indonesiana e sulle risposte offerte dalla comunità ecclesiale:
R. - La nostra
Chiesa è viva e fiorisce con tutte le sue sfide interne, perché dobbiamo continuare
a rafforzare la fede dei nostri fedeli e la nostra vita comunitaria, ma allo stesso
tempo è una Chiesa aperta al dialogo e all’annuncio della Buona Novella agli altri,
perché i fedeli non devono restare chiusi in se stessi. Inoltre dobbiamo dare maggiore
attenzione alla formazione dei nostri giovani e alla famiglia esposti alle pressioni,
anche violente, della vita moderna per garantire il futuro della nostra Chiesa e conservarla
nella fede. E poi, lo ripeto, dobbiamo essere capaci di convivere con i credenti di
altre fedi, perché siamo una minoranza che non vuole essere timida e titubante, ma
capace di esprimersi, di dare un contributo qualitativamente valido. Per questo spingiamo
anche i nostri laici a partecipare alla vita politica e alla vita economica. Il problema
sono i gruppi fondamentalisti foraggiati, aiutati o protetti non si sa da chi, che
la comunità maggioritaria, quella musulmana, tollera non per simpatia, ma perché incapace
di affrontarli. Le stesse autorità civili non sembrano in grado di affrontare con
giustizia questa situazione, quindi di punire le azioni che minano la convivenza pacifica
delle persone, la Costituzione del Paese e il suo futuro. Se non possiamo vivere insieme
in pace come Nazione, come può progredire la famiglia umana nel mondo?
D.
- A questo proposito, c’è comunque un dialogo con alcune organizzazioni musulmane,
anche autorevoli, con le quali esiste una collaborazione in alcuni campi. Cosa ci
può dire in proposito?
R. - Sì, abbiamo un rapporto regolare con i capi
delle altre religioni: musulmani, protestanti, induisti, buddisti e confuciani. Partendo
dall’analisi della situazione sociale, denunciamo i mali che non vengono affrontati
e non sono risolti dalle autorità e diamo suggerimenti a tutte le parti. Questo avviene
a livello nazionale con risultati, a mio avviso, positivi che influiscono anche sul
dialogo a livelli più bassi. Devo dire, tuttavia, che questa collaborazione non riesce
alla stessa maniera in tutte le parti del Paese, perché c’è il fondamentalismo che
non è solo il frutto di convinzioni religiose, ma anche di interessi economici, politici
e sociali, per cui non è una cosa semplice. Quando ci sono episodi di violenza settaria
non dobbiamo infatti pensare automaticamente che sia uno scontro tra religioni. Per
la Chiesa è importante rafforzare lo spirito di dialogo: anche se non siamo accettati
in alcune aree del Paese e subiamo ancora violenze, non dobbiamo fermarci. Dobbiamo
consolidare la collaborazione con quella maggioranza di musulmani di buona volontà
che sono rimasti moderati e che vogliono la nostra amicizia.
D. - A
proposito di dialogo religioso ed ecumenico, in diversi Paesi nel mondo proliferano
sette cristiane che a volte possono creare problemi anche alla Chiesa cattolica: avete
questo tipo di problema in Indonesia?
R. Sì lo abbiamo. Ci sono sette
che fanno un proselitismo aggressivo che ci disturba, non tanto perché allontanano
alcuni nostri fedeli, ma perché seminano la discordia. A farne le spese non è neanche
tanto la Chiesa cattolica, quanto piuttosto le stesse le chiese protestanti che subiscono
il proselitismo di queste nuove Chiese, alcune delle quali provenienti dall’estero,
altre nate da divisioni nelle chiese locali. Questo tipo di proselitismo è contrario
alla testimonianza cristiana e alla volontà di dialogo tra le religioni, perché contraddice
veramente quanto andiamo dicendo e quello che vogliamo realizzare con i credenti di
altre fedi.
D. - Lei ha accennato prima ai laici e ai giovani. Come
possono diventare una ‘speranza’ per il futuro della Chiesa in Indonesia e quindi
per la nuova evangelizzazione? R. - Non solo possono, ma devono contribuire
all’evangelizzazione, anche perché, se ai chierici è riservato il dialogo ufficiale,
sono i laici che hanno contatti quotidiani con i musulmani e i protestanti. Quello
che diciamo sempre è: ‘Siete voi i portavoce della Chiesa nella vita della società’.
Noi incoraggiamo i laici, aiutandoli anche a sopportare con pazienza il clima di ostilità
che respira in alcune aree del Paese. Certo non è facile e non c’è una ricetta valida
per tutte le situazioni.
D. - Cosa ci può dire sulla presenza della
Chiesa indonesiana nei media che sono così importanti nel mondo di oggi?
R.
- Sì, siamo consapevoli della loro importanza. Facciamo diverse cose in questo campo.
Ad esempio, tutte le nostre parrocchie hanno un bollettino. Abbiamo una rivista a
diffusione nazionale che si chiama “Hidu” (“Vita”). Inoltre cerchiamo di incoraggiare
i nostri giovani e i nostri intellettuali a scrivere sui giornali e sulle riviste.
Ci sono diversi scrittori cattolici apprezzati nella società indonesiana. Abbiamo
poi radio in quasi tutte le diocesi. Per quanto riguarda la televisione, usufruiamo
di alcuni spazi per la trasmissione delle Messe e delle omelie, ma anche di riflessioni
su temi non strettamente cattolici come la promozione umana, la fratellanza , la corruzione.