Concluso il Meeting di Rimini: il bilancio di Emilia Guarnieri e la testimonianza
del vescovo di Camaçari
L’amicizia fra i popoli in un tempo reso drammatico dai conflitti in corso sullo scenario
internazionale non è una chimera ma è possibile fino agli estremi confini della terra.
E’ il messaggio che giunge dal Meeting di Comunione e liberazione che si è concluso
ieri a Rimini registrando 800 mila presenze di 38 nazionalità diverse. L’imponente
macchina organizzativa che ha allestito 113 incontri con oltre 300 relatori è tornata
a sorprendere. Emilia Guarnieri, presidente della fondazione Meeting per l’amicizia
fra i popoli, spiega al microfono dell’inviata Antonella Palermo i motivi del
rinnovato successo di questo appuntamento:
R. – Io credo
che il motivo del successo sia il lavoro dei quattromila volontari perché, come diceva
anche ieri il cardinale Sarah, la gratuità è ciò che manda avanti il mondo, la gratuità
è ciò che in qualche modo comunica l’amore che Dio ha per tutti gli uomini. Quindi
credo che sia proprio questo il primo fattore che crea uno spazio umano, che fa del
Meeting un luogo di presenza di altro da noi e che rende possibile questa storia,
questa avventura fantastica di incontri.
D. – La certezza in un’epoca
di forte precarietà, di crisi economica e di venti rivoluzionari che creano anche
destabilizzazione …
R. – Sì, certo. La crisi è stata ben presente qui
al Meeting nel senso che abbiamo visto e abbiamo incontrato persone che vivono in
Paesi colpiti dalla crisi economica e non solo economica, situazioni di difficoltà,
contraddizioni. Credo che abbiamo fatto tutti i conti con questo e di questo si è
parlato, su questo si è riflettuto; abbiamo avuto autorevoli esponenti del mondo della
politica, dell’economia, della finanza a parlare su questo. Direi che c’è stato un
leit-motiv in tutti: occorre il coraggio e la responsabilità di partire dal positivo,
di partire da ciò che c’è.
D. – Comunione e Liberazione cosa chiede
al governo italiano?
R. – Io credo che quello che abbiamo detto nell’incontro
con il presidente Napolitano sia in qualche modo la cifra di ciò che ci sta a cuore:
la libertà, la libertà di poter continuare a costruire attraverso realtà che operano
dal basso, insieme a tutti gli uomini, perché non vogliamo la libertà per noi o solo
per noi. Dunque la libertà di poter continuare a costruire e poter continuare ad educare.
Don Giussani diceva: toglieteci tutto, siamo disposti ad andare in giro nudi, ma non
toglieteci la libertà di educare.
D. – Il Meeting sarà esportato anche
altrove oltre che al Cairo?
R. - Abbiamo in programma questa esperienza
giapponese alla fine di ottobre. Si tratta di un incontro realizzato dall’Istituto
di cultura italiana in Giappone, dall’ambasciata e da realtà culturali del mondo giapponese.
Per noi rappresenta un’occasione di incontro, di racconto di quello che siamo, perché
non è che noi abbiamo un’ideologia da esportare, noi abbiamo un’esperienza umana attraverso
la quale ci incontriamo con chiunque sia possibile farlo.
D. - Qual
è il tema dell’anno prossimo?
R. – Insistiamo proprio su questo aspetto
del che cos’è la natura dell’uomo: la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito.
(bf)
Presente al Meeting anche mons. Joao Carlos Petrini, di origini
italiane, vescovo di Camaçari in Brasile. Luca Collodi gli ha chiesto le sue
impressioni al Convegno di Rimini di quest’anno:
R. - L’impressione
è sempre quella di una cosa eccezionale, perché è quasi impossibile incontrare un
altro luogo dove ci sia tanta gente che ha un ideale nella vita e si vede: il volto,
lo sguardo, il sorriso, la facilità con cui uno sta con l’altro danno l’idea di un
popolo che ha qualcosa in comune molto importante; qualcosa di grande che dà alla
vita una consistenza di significato, di speranza e di bellezza e che non si trovano
molto frequentemente.
D. - Mons. Petrini, il Meeting cerca delle certezze,
non solo certezze di fede ma anche certezze nella vita quotidiana: per il Brasile,
il titolo di quest’anno del Meeting - “L’esistenza diventa un’immensa certezza” -
che significato ha avuto?
R. - Io credo che abbia un significato molto
simile, perché ogni uomo e ogni donna ha bisogno di certezza per poter camminare.
Avere le certezze vuol dire avere una chiarezza di meta; vuol dire sapere cosa effettivamente
il mio cuore desidera, a cosa devo dedicarmi per poter trovare le risposte giuste
a quel desiderio di felicità che mi porto dentro. A questo punto si capisce come sia
importante la persona di Gesù Cristo e come sia importante che la sua presenza possa
essere riconosciuta oggi. E questo vale in Italia, vale in Brasile, vale in capo al
mondo…
D. - In Occidente, in Europa le certezze oggi sono poche: in
Brasile, invece, ce ne sono?
R. - Ancora sì. C’è una qualità culturale
molto diversa: nonostante l’alta cultura - quella accademica è molto simile in tutto
il mondo e tende al nichilismo, a questa smobilitazione - la cultura del popolo è
una cultura profondamente religiosa e, forse, proprio per questo ha una speranza molto
radicata. C’è poi un altro elemento: il Brasile è in un momento favorevole di crescita,
di sviluppo, con la conseguente attesa che i prossimi 20 anni potranno essere decisivi
per un decollo, per un benessere, per una giustizia sociale maggiore, per una convivenza
più pacifica. In questo anche la Chiesa entra come un elemento che contribuisce fortemente
affinché rimanga vivo il sentimento religioso, affinché rimanga chiara la luce di
Cristo in questo cammino di speranza. In questo il Brasile è differente da tutta l’Europa,
dove si sente un qualcosa di invecchiato: invecchiato, perché si perde un po’ il gusto
della vita e c’è come una stanchezza davanti alla vita, che in Brasile non c’è.
D.
- Il Brasile riesce a limitare o a sconfiggere la povertà?
R. - Sono
stati fatti grandi passi, soprattutto dagli ultimi governi: controllando l’inflazione,
ma anche grazie a delle iniziative specifiche per favorire i più poveri. Questo ha
fatto sì che circa 30 milioni di abitanti siano ormai fuori dalla soglia della povertà.
D. - Nella società brasiliana resta, però, molta violenza…
R.
- Resta molta violenza perché, in fondo, c’è sempre un grande dislivello tra le possibilità
di vita nel quotidiano e quello che, attraverso i mezzi di comunicazione, viene mostrato
come il sogno che deve essere concretizzato. Dove non entra in gioco questa attesa
positiva nei confronti dell’impegno, di un ideale di vita, di un progetto di vita,
allora la violenza trova spazio.
D. - Mons. Petrini, in Brasile le
sette e la superstizione, però, non sembrano sconfitte…
R. - Comunque
non sono cresciute negli ultimi cinque-sei anni, anche perché la Chiesa, proprio in
questi ultimi cinque-sei anni, ha recuperato una passione missionaria che in altre
epoche - forse - non era così intensa. Questo è un momento in cui la Chiesa cattolica
sta rifiorendo. Posso addirittura dire che, andando in giro per le strade di diverse
città, vedo molte chiese di queste sette abbastanza spopolate… Ancora sono potenti,
perché hanno i mezzi di comunicazione che raggiungono capillarmente molte realtà,
ma hanno perduto quell’attrattiva che avevano anni fa quando la Chiesa sembrava meno
visibile soprattutto dal punto di vista dell’annuncio di Gesù Cristo. (mg)