L'Unione Africana si mobilita contro la fame in Somalia, Etiopia e Kenya
Dopo le critiche per la lentezza nella risposta alla crisi del Corno d’Africa, i Paesi
membri dell’Unione Africana si sono riuniti ieri ad Addis Abeba per raccogliere fondi
per far fronte alla carestia che ha colpito 13 milioni di persone tra Somalia, Kenya,
Etiopia e Gibuti. Secondo l'Onu sono necessari almeno due miliardi e 400 milioni di
dollari: finora solo il 58 per cento di questa cifra è stato promesso dai Paesi donatori.
Perché questa lentezza nella risposta della comunità internazionale, soprattutto da
parte dei Paesi africani? A Francesca Sabatinelli risponde Marco Bertotto,
direttore di Agire, network di nove Ong attive nel Corno d’Africa.
R. – C’è
stata una lentezza generale di tutti i Paesi donatori. Lentezza in parte giustificata
anche da una situazione globale difficile, dalla crisi dei debiti sovrani che ha reso
soprattutto alcuni Paesi particolarmente restii ad intervenire in tempi rapidi. I
Paesi africani sono rimasti indietro e l’iniziativa della Conferenza dei donatori,
organizzata dall’Unione Africana ad Addis Abeba, cerca proprio un coinvolgimento dei
Paesi della regione.
D. – Le varie Ong che fanno parte di “Agire” sono
dislocate in vari punti dei Paesi coinvolti. Qual è, attualmente, la situazione che
si presenta più drammatica?
R. – Ci sono diverse situazioni di particolare
difficoltà, specialmente nei campi ai confini tra la Somalia e l’Etiopia e tra la
Somalia ed il Kenya, dove c’è un congestionamento di presenze, di grandi numeri di
persone che sono fuggite e continuano a fuggire dalla Somalia. Lì ci sono condizioni
particolarmente difficili da gestire, soprattutto dal punto di vista sanitario come
anche della distribuzione dell’acqua potabile e del cibo. C’è una situazione drammatica
anche in Somalia, laddove alle problematiche della carestia – che le Nazioni Unite
hanno formalmente dichiarato in alcune regioni dell’area centro-meridionale del Paese
- si aggiunge anche una difficoltà di accesso per gli operatori sanitari. La sicurezza
rimane estremamente precaria, e quindi la possibilità di mettere in piedi delle operazioni
su vasta scala è ancora limitata. Il rischio maggiore è che quest’emergenza umanitaria
nel Corno d’Africa venga assorbita da un’idea che si rischia di trasmettere di quest’emergenza,
ossia che si tratti della classica crisi alimentare in un Paese che è ciclicamente
sottoposto a situazioni di siccità e che quindi, in qualche modo, è una crisi sulla
quale è impossibile intervenire in maniera efficace. Ma non è così. Il nostro sforzo
- ed anche quello delle organizzazioni umanitarie - nella comunicazione di questa
crisi è proprio quello di trasmettere l’idea che siamo di fronte ad un disastro di
vastissime dimensioni su cui è impossibile non fare qualcosa, ed è perciò indispensabile
intervenire con gli strumenti e le risorse che occorrono per salvare delle vite umane.
(vv)