Somalia: gli aiuti non raggiungono l’intero Paese. Appello di mons. Bertin alla diaspora
somala
Emergenza umanitaria in Somalia, da 20 anni afflitta da una guerra intestina e colpita
dalla carestia. Grazie alla mobilitazione internazionale sono state stanziate somme
di denaro e sono partite derrate di viveri e generi di prima necessità, ma resta alta
la preoccupazione per le sorti di questo Paese. Roberta Gisotti ha intervistato
mons.Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio e direttore
della Caritas somala:
D. – Solo
negli ultimi mesi il mondo sembra aver riscoperto la gravità della situazione umanitaria
in Somalia, ma la macchina dei soccorsi ha raggiunto la popolazione sofferente?
R.
– In parte sì, l’ha raggiunta. E quando dico in parte intendo i rifugiati che si trovano
nei campi di Dadaab, in Kenya, e a Dolo Ado nel sud-ovest dell’Etiopia ed anche a
Mogadiscio, dove ci sono circa 100 mila profughi a causa della siccità che dura ormai
da tre mesi. Nel centro-sud della Somalia, invece, gli aiuti arrivano un po’ centellinati.
Ecco perché queste zone continuano a produrre nuovi profughi.
D. – Quale
situazione abbiamo oggi, in Somalia, sul piano politico? Le presenze straniere in
campo somalo stanno aiutando o complicando il quadro?
R. – Le truppe
africane dell’Amisom, che si trovano lì anche per via di un mandato delle Nazioni
Unite, ci stanno mettendo davvero un po’ di buona volontà. Probabilmente i diversi
interlocutori internazionali dovrebbero sforzarsi di avere un approccio ancor più
coordinato rispetto a quello avuto finora, un approccio che abbia il solo scopo di
far rinascere lo Stato e ristabilire un po’ di sicurezza in questo Paese.
D.
– Ma che cosa impedisce, dopo 20 anni, di avere un qualche governo democratico?
R.
– Direi proprio questi 20 anni, perché in questo periodo la gente si è in un certo
senso abituata. I poveri si sono abituati a mendicare, a chiedere aiuto, ed i più
furbi, invece, hanno preso l’abitudine di approfittare di questo stato di cose, di
questa mancanza dello Stato, per portare avanti i propri scopi. Sono questi 20 anni
il vero ostacolo: hanno generato un certo tipo di economia, di sopraffazione, di dominio
gli uni sugli altri di cui è difficile disfarsi. Bisogna avere quindi un altro approccio,
che però è difficile da inventare.
D. – Quindi, per una soluzione, si
ha inevitabilmente bisogno di un aiuto esterno...
R. – Chiaramente.
Se penso all’aiuto esterno mi viene in mente soprattutto la diaspora somala: ci sono
moltissimi somali sparsi in tutto il mondo. Direi addirittura che è la parte migliore
quella che è fuggita dalla Somalia. Quello che lamento è che finora questa diaspora
somala mi è sembrata poco coordinata e forse anche un po’ prigioniera di quelle divisioni
interne allo stesso Paese.
D. – La Chiesa che cosa riesce ed è riuscita
a fare in questa situazione?
R. – Ultimamente l’intervento del Santo
Padre ha attirato l’attenzione sulla drammatica situazione somala e poi abbiamo anche
riprovato, attraverso organizzazioni cattoliche, a vedere se era possibile un dialogo
politico. Ora non posso fare dei nomi, ma ho rilanciato questo tentativo proprio di
recente. Questo è ciò che è stato fatto per quanto riguarda la ricostruzione dello
Stato, che fa comunque parte del contesto politico. Nel campo umanitario, invece,
in questi 20 anni abbiamo continuato, in modi diversi, a sostenere la popolazione
e, in questi ultimi due mesi, si è chiaramente accentuata la presenza delle nostre
organizzazioni cattoliche, in particolare della Caritas, nei campi dei rifugiati.
Più difficile si presenta la situazione in Somalia, vista la sensibilità religiosa
verso la quale potremmo avere dei grandi problemi. In questo momento lavoriamo in
modo discreto e lavoriamo soprattutto attraverso delle associazioni locali o delle
persone che, nel caso di "Caritas Somalia", hanno una relazione con noi da 20 anni.
D.
– E’ comunque necessario che i riflettori della Comunità Internazionale restino accesi
sulla Somalia...
R. – Certamente, ma bisogna che non si accontentino
di commuoversi vedendo il povero bambino ridotto alla fame ma che riflettano, si pongano
una domanda sul perché si sia arrivati a questo punto. Questa mancanza di coesione,
questa volontà alquanto fiaccata nell’affrontare il discorso politico non è semplicemente
una conseguenza naturale della siccità, ma è una conseguenza umana.
D.
– Quindi non possiamo continuare a lasciare questo Paese in balia di se stesso, dell’anarchia
e dell’arbitrio...