Schiavitù: negazione del divino in quanto negazione dell’umano
Il 22 (*) agosto il mondo ha commemorato l’anniversario dell’abolizione della schiavitù.
Come gli anni passati, ancora una volta nei Paesi nei quali tale celebrazione ha avuto
maggiore visibilità, si sono susseguiti discorsi e veementi proclami. Ovunque sono
state ricordate la gravità e la portata di tale pratica, che ha consistito nella vendita
di esseri umani dall’Africa alle Americhe e Caraibi, finalizzata al benessere e prosperità
del continente europeo. Questo “Commercio triangolare”, come si è caratterizzato nel
corso degli anni, resta una ferita aperta nella memoria, un drammatico vissuto da
ricordare sempre al fine di assicurarsi che mai più esso possa ripetersi. Ma è proprio
così?
Il grido di Giovanni Paolo II nel febbraio 1992 sull’Isola di Gorée,
porto di partenza di milioni di persone deportate, continua a risuonare nelle coscienze.
Ma in quanti lo ascoltano? In tutta verità ed umiltà bisogna confessare questo
peccato dell’uomo contro l’uomo, questo peccato dell’uomo contro Dio – ammoniva
allora il Papa– È lungo il cammino che la famiglia umana deve percorrere
prima che tutti i membri apprendano a riconoscersi e a rispettarsi gli uni gli altri
come immagine di Dio, ad amarsi in quanto figli e figlie di uno stesso Padre Celeste!
Il
cammino è lungo; la presa di coscienza condivisa richiede tempo. Come se la gravità
del crimine non potesse essere contenuta nella memoria collettiva, in varie occasioni
la schiavitù è stata negata, minimizzata, cancellata e considerata come un evento
marginale nella storia dell’umanità. Non è solo fino alla data dell’abolizione, sul
numero delle vittime che fece, sul profitto da essa generato alle Nazioni negriere
né sulle modalità della riparazione (se una riparazione fosse contemplata) che il
mondo si divide. Ogni volta che la memoria viene cancellata altre abominazioni si
creano e si sovrappongono a quelle di ieri. Al punto che comunemente oggi si parla
di “nuove schiavitù”.
Che sia nelle forme tradizionali, o attraverso nuove
pratiche, questo fenomeno persiste ancora, dunque, e in generale non riceve che deboli
sanzioni e condanne. Le “caravelle un tempo cariche di negri” non solcano più il mare,
certo, ma solo perché non è più necessario: oggi sono gli stessi schiavi che - sedotti
dall’illusione di “un altrove prospero”, ma tenuti all’oscuro dei meccanismi economici
che tendono ad impoverirli e renderli sempre più dipendenti, una volta abbandonato
il proprio Paese – si gettano nelle barche della fortuna, superano deserti e ostacoli,
per consegnarsi nelle mani di trafficanti di ogni ordine e finire a vivere in una
condizione di schiavitù.
Sfidare gli oceani, con il rischio di perdere la vita,
per venire a porsi sotto il giogo di un “proprietario”, costretti a raccogliere le
arance, le mele o i pomodori nei paesi ricchi del Mediterraneo per 6 euro al giorno
non è che una delle tante forme di schiavitù odierne. Sebbene possa sembrare assurdo
– ma solo in apparenza - anche le bombe della Nato in Libia costringono molti uomini
ad attraversare il Mediterraneo per cercare rifugio in Occidente. Ancora, “orde di
affamati vengono all’assalto delle cittadine europee” dalla Somalia, dove per gli
ultimi venti anni nulla è stato portato, o “donato”, ad eccezione delle armi. Nel
nostro mondo globalizzato, allo “schiavo moderno” vengono forniti con facilità sofisticati
strumenti utili per la propria autodistruzione, mentre gli viene negata l’aspirina.
Oppure, in altri casi, l’accesso alle sementi dei campi è condizionato per i contadini
all’impedimento di coltivare prodotti – cotone, tabacco, caffé ecc. – per uso proprio:
le relazioni tra gli Stati impongono che gli alimenti siano importati dall’estero.
La
schiavitù di oggi assume nuovi volti, dunque. Si articola e riproduce per mezzo di
meccanismi più sottili e convincenti. In Mauritania, ad esempio, la schiavitù è stata
ufficialmente abolita nel 1980; tuttavia, a coloro che si scandalizzano dinanzi alla
persistenza del fenomeno viene risposto che “si tratta di pratiche culturali volontariamente
accettate”.
L’annuale commemorazione per l’abolizione della schiavitù - che
ha senso solo se riesce a parlare al cuore degli uomini, a scuotere le coscienze –
assume dunque una duplice sfida. Da una parte spingere a denunciare le orribili
aberrazioni di coloro che hanno ridotto in schiavitù i propri fratelli e sorelle,
che il Vangelo aveva destinato alla libertà (Papa Giovanni Paolo II, Gorée 1992);
dall’altra riconoscere le responsabilità di quanti in Africa hanno venduto i propri
fratelli per un viaggio senza ritorno verso le Americhe, un tempo (Pellegrinaggio
dei vescovi africani a Gorée, 5 ottobre 2003) e di tutti quelli che oggi continuano
a perpetrare la negazione dell’umano, attraverso forme più subdole.
Nuovi
problemi e nuove schiavitù, infatti, emergono nel nostro tempo, sia nel cosiddetto
primo mondo, benestante e ricco ma incerto circa il suo futuro, sia nei Paesi emergenti,
dove, anche a causa di una globalizzazione caratterizzata spesso dal profitto, finiscono
per aumentare le masse dei poveri, degli emigranti, degli oppressi, in cui si affievolisce
la luce della speranza, sottolineava Papa Benedetto XVI nel maggio scorso, rivolgendosi
ai membri delle Pontificie Opere Missionarie... La schiavitù, ieri come oggi, si alimenta
alla fonte inquinata del peccato. Se si elimina Dio dall’orizzonte del mondo, non
si può parlare di peccato. Come quando si nasconde il sole, spariscono le ombre; l’ombra
appare solo se c’è il sole; così l’eclissi di Dio comporta necessariamente l’eclissi
del peccato. Perciò il senso del peccato – che è cosa diversa dal “senso di colpa”
come lo intende la psicologia – si acquista riscoprendo il senso di Dio, precisava
ancora Papa Benedetto XVI all’Angelus del 13 marzo 2011. La migliore commemorazione
dell’abolizione della schiavitù si realizzerà, dunque, nella riscoperta della figura
di Dio, luminosa, chiarificatrice e colma di amore per tutti gli uomini, ovunque e
in ogni epoca.
(A cura di Albert Mianzoukouta,
programma francese Africa della Radio Vaticana).
(*) La data del 22 agosto
è un richiamo all’inizio della rivolta di Santo Domingo (Haïti), nel 1791. La conseguente
abolizione della schiavitù sarà proclamata in diversi momenti nei vari Paesi schiavisti,
che non consente di stabilire una data unica: Danimarca e Regno Unito (1792, abolizione
graduale), Francia (1791. In seguito ripristinata e nuovamente abolita nel 1848) ecc
ecc...