2011-08-22 15:49:00

L'inviato Onu in Myanmar per verificare il rispetto dei diritti umani nel Paese


Durerà cinque giorni la visita, iniziata ieri, in Myanmar dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Tomàs Ojea Quintana, incaricato di verificare il rispetto dei diritti umani da parte del nuovo governo civile del Paese. Sarà la prima visita dal marzo 2010, quando il regime protestò per la richiesta dello stesso Quintana di un’inchiesta Onu nell'ex Birmania. Di due giorni fa invece il primo incontro tra la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi e il nuovo capo di Stato Thein Wein. Un incontro definito storico e incoraggiante dalla stessa Suu Kyi. Sono, questi, da considerarsi segnali di una possibile svolta in un Paese ritenuto uno dei regimi più duri al mondo? Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Cecilia Brighi, responsabile Asia della Cisl:RealAudioMP3

R. - Sono sicuramente segnali positivi. Io sarei molto cauta nel dire che rappresentano passi in avanti. Abbiamo già visto nel passato che, anche durante gli arresti domiciliari della leader birmana Aung San Suu Kyi, ci sono stati incontri tra il ministro per le Relazioni - che poi era il ministro del Lavoro - e Aung San Suu kyi ma in realtà non c’è stato un cambiamento strutturale nella condizione del processo democratico nel Paese. C’è una situazione molto complessa attualmente in Birmania: c’è uno scontro tra il governo e l’esercito che si è visto scippare il ruolo di potere nel Paese dopo le elezioni; ci sono scontri in atto con i rappresentanti delle nazionalità etniche, conflitti armati con anche violazioni di diritti umani pesantissime e infine c’è una situazione economica molto complessa. Forse il presidente ha voluto lanciare un messaggio di apertura anche in vista dell’Assemblea nazionale delle Nazioni Unite.

D. - Quando l'inviato delle Nazioni Unite, Quintana, rientrerà al Palazzo di Vetro dovrà relazionare. Che cosa succederà a suo giudizio all’Assemblea generale dell’Onu?

R. - Ad oggi non è cambiato nulla dal punto di vista della violazione dei diritti umani. Ci sono ancora più di 2100 detenuti politici in carcere. Si era parlato di un’amnistia dopo le elezioni, le elezioni sono state a novembre e non c’è stata nessuna amnistia. Inoltre, continuano le violazioni dei diritti umani; continua il lavoro forzato, noi lo abbiamo denunciato anche all’assemblea di giugno dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e ancora una volta il nuovo governo birmano è stato condannato; ci sono stupri, esecuzioni extragiudiziali … Noi abbiamo chiesto come Cisl, ma anche come sindacato mondiale insieme ad altri Paesi - Stati Uniti Gran Bretagna Australia Canada -, l’apertura di una commissione di indagine sui crimini di guerra contro l’umanità. Auspichiamo che il governo italiano e l’Unione europea appoggino pienamente la richiesta di questa indagine da parte delle Nazioni Unite e speriamo che all’Assemblea generale venga approvata questa commissione, perché è importante definire le responsabilità delle violazioni dei crimini di guerra e contro l’umanità perpetrate fino ad oggi nel Paese.

D. - Recentemente la Birmania si è anche rivolta al Fondo Monetario Internazionale per cercare di avviare una riforma economica. La grave crisi potrebbe in qualche modo dare la svolta?

R. - Il Paese è con l’acqua alla gola perché manca un sistema democratico e una politica macroeconomica trasparente. E’ estremamente corrotto, quindi bisognerebbe eliminare questi elementi strutturali presenti nel Paese. Manca anche la libertà di organizzazione sindacale. Il governo si è confrontato con gli imprenditori, anche con Aung San Suu Kyi, però noi chiediamo, come ha chiesto il sindacato birmano clandestino, che il sindacato sia riconosciuto e che possa partecipare al processo di trasformazione politica ed economica del Paese perché le condizioni di lavoro in Birmania sono condizioni assolutamente inaccettabili, peggiori di quelle che abbiamo visto nelle zone franche cinesi o vietnamite. I primi segni di cambiamento che il governo deve dare sono: la liberazione dei detenuti politici, il cessate il fuoco nelle zone degli Stati etnici e l’apertura di un dialogo concreto con tutte le forze democratiche ed etniche. (bf)







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