Terra Santa tra speranze e tensioni: la riflessione di mons. Shomali, vescovo ausiliare
di Gerusalemme
Il ricorso dei palestinesi all’Onu, il 20 settembre, per il riconoscimento di un proprio
Stato, le proteste in Israele contro il carovita, gli insediamenti israeliani nei
Territori occupati: sono i temi caldi della situazione attuale in Medio Oriente, in
particolare in Terra Santa, mentre l’attenzione è catalizzata dalle drammatiche notizie
che giungono dalla Siria. Fausta Speranza ne ha parlato con mons. William
Shomali, vescovo ausiliare del Patriarca Latino di Gerusalemme:
R. - Veramente
in Terra Santa abbiamo tre punti caldi, perché quando parliamo di Terra Santa, infatti,
parliamo di Israele, da una parte, e della Palestina, dell’altra: si trovano sullo
stesso territorio, tra il Giordano e il Mediterraneo. I palestinesi guardano a settembre
e sperano di essere riconosciuti, come Stato, dai due terzi dei Paesi che compongono
le Nazioni Unite. D’altronde sanno, però, che arrivando al Consiglio di Sicurezza
troveranno il veto americano: questo lo sanno già, ma nonostante ciò vogliono provare
ad avere un riconoscimento dell’Assemblea generale, diventando così uno Stato osservatore.
Dunque, i palestinesi vivono una certa speranza, anche se limitata perché già sanno
che dopo aver ottenuto il riconoscimento - se questo ci sarà! - la situazione non
cambierà. Ma certamente cambierà il senso di fiducia in loro stessi e con questo riconoscimento
avrebbero più fiducia per l’avvenire.
D. - Da parte palestinese c’è
questa attesa per settembre. Da parte di Israele, nella società civile, c’è una spinta,
una protesta per questioni economiche e da parte del governo c’è invece la preoccupazione
e l’allarme per eventuali disordini. Ma tra la gente israeliana cosa si percepisce?
R.
- In Israele, è in corso una protesta contro il carovita, perché mancano in particolar
modo gli alloggi: da parte del governo, c’è troppa burocrazia prima di arrivare ad
ottenere l’autorizzazione per costruire una casa. Noi, come Patriarcato, abbiamo impiegato
15 anni per riuscire ad ottenere le autorizzazioni per la costruzione di alloggi per
80 famiglie: un tempo un po’ troppo lungo per gli israeliani, ma anche per gli arabi.
Una casa costa molto: a Gerusalemme, una casa nuova di cento metri quadrati costa
300 mila dollari, da pagare subito. La gente comune non può farlo… Per affittare una
casa, una casa normalissima, sempre a Gerusalemme, servono 800 dollari. Questo è un
costo troppo elevato per una famiglia media. Quindi è partita da Tel Aviv, e si è
poi estesa in altre 10 città, una protesta sotto le tende, con l’aiuto di giovani
universitari e di intellettuali. Questo fa paura al governo, perché questa protesta
potrebbe crescere. Israele è un Paese ricco, ha soldi, ma spende molto per le armi
per difendersi contro l’Iran, contro i Paesi arabi vicini. Quindi queste persone che
protestano dicono: “Mettete meno soldi nel budget relativo all’acquisto di armi e
più soldi nello sviluppo economico”.
D. - Mons. Shomali, un altro punto
dolente è quello degli insediamenti: anche per le colonie si spende e si incentivano
le persone ad andare lì proprio perché gli alloggi costano meno in queste colonie…
R.
- Esatto, ma molto israeliani non vogliono vivere in questi insediamenti perché si
trovano nei Territori occupati: hanno paura che un giorno debbano andarsene, perdendo
la casa; o hanno un senso di giustizia, perché questi territori non appartengano a
loro. Per diversi motivi, quindi, ci sono tante case vuote negli insediamenti e poche
case vuote nelle grandi città.
D. - Nella situazione attuale, lei vede
possibile una ripresa seria dei negoziati?
R. - I palestinesi sono sfiduciati
riguardo ai negoziati: sono durati più di vent’anni senza, però, portare alcun risultato.
Io penso che se ci fosse un’intenzione seria da parte di Israele di riaprire i negoziati
veramente, si potrebbe ottenere qualcosa: a condizione, però, di ripartire dalla piattaforma
relativa alle frontiere del ’48, considerando Gerusalemme Est come territorio occupato.
Se si riuscirà ad essere chiari su questi principi, su cosa sia stato occupato o su
cosa non sia stato occupato, si potranno condurre negoziati onesti, chiari e produttivi.
D. - Mons. Shomali, in questo contesto di cosiddetta “Primavera araba”,
che in realtà sta diventando un po’ un “autunno arabo”, l’attenzione mediatica sul
Medio Oriente e sulla zona della Terra Santa è diminuita?
R. - E’ un
po’ diminuita, perché l’attenzione è ora spostata verso la Siria, dove ogni giorno
si sente parlare di 15-20 morti. Anche noi, come vescovi della Terra Santa, stiamo
preparando un comunicato, che sarà pubblicato prossimamente, per chiedere al governo
siriano una maggiore democrazia e un atteggiamento non violento nei confronti del
movimento di protesta. (mg)