2011-08-12 15:13:19

Al Rossini Opera Festival di scena il "Mosè in Egitto" curato da Graham Vick


E’ andato in scena all’Adriatic Arena di Pesaro, nell’ambito del Rossini Opera Festival, il contrastato allestimento curato dal regista inglese Graham Vick del “Mosè in Egitto” di Rossini, con repliche fino al 20 agosto. Soppresso qualsiasi riferimento biblico e attualizzato il contesto storico che vede, ieri come oggi, due popoli in guerra e dilaniati dall’odio, l’opera è stata accolta dal pubblico con grandi applausi e contestazioni in pari misura. Il servizio di Luca Pellegrini:RealAudioMP3

(musica)

Mosè, il condottiero del popolo ebraico in fuga dalla schiavitù, innalza la sua invocazione al “soglio stellato” appoggiandosi al parapetto di un palazzotto arabo diroccato, dove Faraone abitava. L’immagine è di impatto emotivo fortissimo: tiene in mano un mitragliatore, il suo look è quello del terrorista che lotta per la libertà, non del profeta ispirato da Dio. Ecco, non c’è Dio nell’allestimento del “Mosè in Egitto” con la regia di Graham Vick che tanto scalpore e polemiche sta suscitando in questi giorni. Non c’è Dio, ma c’è una logica coerente e tremendamente teatrale. Sovvertendo i riferimenti biblici ma non quelli storici, il regista trasporta le vicende antiche nell’oggi più immediato, doloroso e sanguinante, tra rovine e vestigia di attentati, un accampamento in lontananza, il famoso muro di separazione tra popoli, una scritta “free Israel” – Israele libero. Come oggi, come ieri: è la rappresentazione degli oppressi e degli oppressori, gli ebrei che usano qualsiasi strumento di lotta, gli egiziani che, non da meno, con qualsiasi mezzo, li tengono in soggezione. Così i primi vanno a scuola di lotta armata, che per qualsiasi popolo non ammette giustificazione, mentre l’amore contrastato tra Elcia e Osiride, che finirà con la fuga di lei e la morte di lui, imprigionato da un lampadario caduto dal cielo simbolo della luce divina - è uno dei primogeniti d’Egitto, la loro morte a grappolo è la scena più viscerale dell’opera - racchiude quel poco di melodramma dell’allestimento pesarese, che non concede mezze misure: o si accetta o si rifiuta. Piccolo tirannello è Faraone, i suoi scherani sono in mimetica nera e fucile, i cortigiani in tunica bianca e kefiah, i servi ebrei si addestrano come kamikaze e gli esseri umani umiliati come bestie rimandano alle ben note immagini di Abu Ghraib. L’accusa è quella dell’antisemitismo, che non appartiene all’ideologia di Vick: a lui interessa il contesto metastorico – illimitato nel tempo e nella metafora – che Rossini gli offre con la sua musica imprevedibilmente contemporanea, eseguita da una compagnia di canto superlativa e diretta da Roberto Abbado con una tensione senza compromessi. Epilogo: il Mar Rosso non è mare, ma il muro di cemento che si apre e permette la fuga degli ebrei in quella parte di città che loro appartiene, un carro armato con la bandiera di Israele stermina gli egiziani, ne esce un soldato che corre verso un bambino arabo per offrirgli una barra di cioccolato, lui nasconde una bomba. Non sappiamo se scoppierà. Quello che sappiamo è che la coscienza dei popoli, su questo palcoscenico, è messa a nudo. Quella degli spettatori intuisce che non può limitarsi a seguire l’opera: in questa storia, ieri e oggi – con l’universalità del racconto biblico e con l’attualità dell’odio e delle guerre – siamo tutti coinvolti e in parte anche responsabili.







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