Al Rossini Opera Festival di scena il "Mosè in Egitto" curato da Graham Vick
E’ andato in scena all’Adriatic Arena di Pesaro, nell’ambito del Rossini Opera Festival,
il contrastato allestimento curato dal regista inglese Graham Vick del “Mosè in Egitto”
di Rossini, con repliche fino al 20 agosto. Soppresso qualsiasi riferimento biblico
e attualizzato il contesto storico che vede, ieri come oggi, due popoli in guerra
e dilaniati dall’odio, l’opera è stata accolta dal pubblico con grandi applausi e
contestazioni in pari misura. Il servizio di Luca Pellegrini:
(musica)
Mosè,
il condottiero del popolo ebraico in fuga dalla schiavitù, innalza la sua invocazione
al “soglio stellato” appoggiandosi al parapetto di un palazzotto arabo diroccato,
dove Faraone abitava. L’immagine è di impatto emotivo fortissimo: tiene in mano un
mitragliatore, il suo look è quello del terrorista che lotta per la libertà, non del
profeta ispirato da Dio. Ecco, non c’è Dio nell’allestimento del “Mosè in Egitto”
con la regia di Graham Vick che tanto scalpore e polemiche sta suscitando in questi
giorni. Non c’è Dio, ma c’è una logica coerente e tremendamente teatrale. Sovvertendo
i riferimenti biblici ma non quelli storici, il regista trasporta le vicende antiche
nell’oggi più immediato, doloroso e sanguinante, tra rovine e vestigia di attentati,
un accampamento in lontananza, il famoso muro di separazione tra popoli, una scritta
“free Israel” – Israele libero. Come oggi, come ieri: è la rappresentazione degli
oppressi e degli oppressori, gli ebrei che usano qualsiasi strumento di lotta, gli
egiziani che, non da meno, con qualsiasi mezzo, li tengono in soggezione. Così i primi
vanno a scuola di lotta armata, che per qualsiasi popolo non ammette giustificazione,
mentre l’amore contrastato tra Elcia e Osiride, che finirà con la fuga di lei e la
morte di lui, imprigionato da un lampadario caduto dal cielo simbolo della luce divina
- è uno dei primogeniti d’Egitto, la loro morte a grappolo è la scena più viscerale
dell’opera - racchiude quel poco di melodramma dell’allestimento pesarese, che non
concede mezze misure: o si accetta o si rifiuta. Piccolo tirannello è Faraone, i suoi
scherani sono in mimetica nera e fucile, i cortigiani in tunica bianca e kefiah, i
servi ebrei si addestrano come kamikaze e gli esseri umani umiliati come bestie rimandano
alle ben note immagini di Abu Ghraib. L’accusa è quella dell’antisemitismo, che non
appartiene all’ideologia di Vick: a lui interessa il contesto metastorico – illimitato
nel tempo e nella metafora – che Rossini gli offre con la sua musica imprevedibilmente
contemporanea, eseguita da una compagnia di canto superlativa e diretta da Roberto
Abbado con una tensione senza compromessi. Epilogo: il Mar Rosso non è mare, ma il
muro di cemento che si apre e permette la fuga degli ebrei in quella parte di città
che loro appartiene, un carro armato con la bandiera di Israele stermina gli egiziani,
ne esce un soldato che corre verso un bambino arabo per offrirgli una barra di cioccolato,
lui nasconde una bomba. Non sappiamo se scoppierà. Quello che sappiamo è che la coscienza
dei popoli, su questo palcoscenico, è messa a nudo. Quella degli spettatori intuisce
che non può limitarsi a seguire l’opera: in questa storia, ieri e oggi – con l’universalità
del racconto biblico e con l’attualità dell’odio e delle guerre – siamo tutti coinvolti
e in parte anche responsabili.