Libia: Tripoli accusa la Nato di aver ucciso 85 civili. Caritas Italia in prima linea
nell'impegno umanitario
In Libia il governo di Gheddafi accusa la Nato di aver causato la morte di 85 civili,
tra cui 33 bambini, nei pressi di Zlitan, 150 km a est di Tripoli. Nella notte si
sono susseguite, nella capitale, violente esplosioni. Secondo fonti locali, l’obiettivo
dei raid era un deposito di armi. Dal canto suo, il presidente del Consiglio di transizione,
Mustafa Abdel Jalil, ha sciolto il governo provvisorio degli insorti che aveva sede
a Bengasi. E’ stato anche annunciato un "rimpasto di governo". Il servizio di Amedeo
Lomonaco:
La stampa
araba attribuisce lo scioglimento del Consiglio di transizione ad “un forte contrasto”,
nel governo degli insorti, tra elementi liberali ed esponenti fondamentalisti. Secondo
gli analisti, le divisioni si sono acuite dopo l’uccisione del generale Abdel Fatah
Younes, ex fedelissimo del colonnello Gheddafi, passato dalla parte degli insorti.
Il generale è stato ucciso lo scorso 28 luglio in seguito ad un agguato, ma in circostanze
ancora non chiarite. Il generale si stava recando a Bengasi, richiamato dal Consiglio
nazionale transitorio, per essere ascoltato in riferimento ad alcune sue presunte
collaborazioni con il leader libico. Inizialmente, la responsabilità dell’assassinio
è stata addossata agli uomini di Gheddafi. Ma sono sempre più insistenti le voci che
legano l’omicidio del generale Younes alle profonde divisioni tra gruppi ribelli rivali.
Alle divergenze politiche, all’interno del Consiglio nazionale transitorio, si aggiungono
le difficoltà sul terreno dove, nonostante l’appoggio della Nato, gli insorti, pur
avanzando da sud verso Tripoli, non riescono a tagliare le linee di rifornimento delle
forze fedeli al rais. Gli insorti hanno inoltre illustrato un piano per il post Gheddafi.
L’obiettivo dichiarato è di evitare che la Libia finisca nel caos, “come accaduto
in Iraq”. Per questo, gli insorti lavorano su due piani - uno politico ed uno militare
- con lo scopo di rassicurare il popolo, e non solo, sul fatto che lo stallo sarà
superato. Da segnalare, infine, che l’Unione europea ha adottato nuove sanzioni
contro il regime di Gheddafi. Le misure restrittive riguardano la compagnia petrolifera
Al-Sharara e l'Organismo per lo sviluppo dei centri amministrativi.
In
Libia proseguono, sesta sosta, le attività umanitarie della Caritas. Nel Paese intanto,
l’aumento dei prezzi e le crescenti difficoltà nel reperire viveri rendono sempre
più difficili le condizioni di vita, soprattutto per gli sfollati e per gli immigrati.
Per monitorare la situazione dei profughi e coordinare gli interventi nell’area, una
delegazione della Caritas italiana si è recata a metà luglio al confine tra Tunisia
e Libia. Sulla situazione nel Paese si sofferma, al microfono di Amedeo Lomonaco,
Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale di Caritas italiana:
R. – Siamo
appena tornati da una missione al confine con la Tunisia: gli interventi si sviluppano
all’interno del Paese, dove è sempre più difficile operare. La Chiesa locale e la
Caritas riescono comunque a far arrivare aiuti alle persone, soprattutto agli sfollati
che vagano per il Paese. Gli interventi umanitari si concentrano anche ai confini
dove sono molte le persone che continuano a fuggire. In particolare, abbiamo assistito
alla fuga di decine di persone di due grandi categorie: i libici, persone che generalmente
hanno anche mezzi economici per potersi poi ricollocare ad esempio in Tunisia, e quelli
che invece sono nella condizione peggiore. Si tratta dei lavoratori immigrati in Libia:
fino a poco fa lavoravano, adesso in realtà fuggono e sono sostanzialmente asiatici
e molto di più sub sahariani che, difficilmente, possono però tornare nei loro Paesi
d’origine. Considerando tutte queste persone, siamo effettivamente di fronte ad un
fenomeno consistente.
D. – In base alle informazioni che avete raccolto,
qual è lo scenario attuale in Libia?
R. – Noi siamo stati al confine
tunisino, quindi abbiamo raccolto le testimonianze di coloro che stavano scappando
in questi ultimi giorni. Sentendo invece i nostri referenti sul posto, anche in queste
ultime ore, complessivamente lo scenario è quello che – tipicamente – vede aumentare
rapidamente l’inflazione nelle zone di guerra, e quindi i pochi beni costano sempre
di più. Manca soprattutto l’elettricità, manca il carburante ma incominciano a scarseggiare
anche i beni di prima necessità, i viveri, l’acqua potabile e questo problema si diffonde
nel Paese e diventa quindi sempre più grave.
D. – Quali sono gli ostacoli
per chi cerca di fuggire dalla Libia?
R. – Per le persone che scappano
all’esterno del Paese, ci sono tutti i problemi legati alla fuga: dover lasciar tutto,
perdere tutto. Spesso vengono ammassati in questi campi profughi vicino o poco all’interno
del confine tunisino, senza prospettive e senza che vengano neanche esaminati i loro
documenti. Quando rimangono lì per mesi e senza prospettive, effettivamente la loro
tenuta psicologica diventa sempre più problematica…
D. – La Libia è
oggi un Paese lacerato da divisioni, sia all’interno del regime, sia tra gli insorti.
Si continua a combattere, ma “la forza delle armi – come ha detto il Papa all’Angelus
di domenica scorsa – non ha risolto la situazione” …
R. – Certamente,
è necessario riprendere l’appello di Benedetto XVI all’Angelus che chiedeva con forza
e con grande chiarezza agli organismi internazionali di riprendere in modo deciso
la via della mediazione, del negoziato, del dialogo per la pace. In questa operazione,
infatti, ormai continua da mesi, non si vede una via d’uscita; le divisioni interne
sui due fronti sono tali per cui è anche difficile distribuire gli aiuti, raggiungere
le popolazioni colpite… Quindi, da una semplice – o perlomeno apparentemente veloce
– operazione bellica rischiamo di trasformare il quadro complessivo in un disastro
umanitario. Ecco perché le parole del Papa hanno un duplice valore, un valore di solidarietà
e di attenzione alle persone più bisognose ma hanno anche un valore politico, perché
la questione va ormai affrontata diversamente e bisogna far tacere le armi al più
presto possibile. (gf)