In Libia la Nato ha intensificato i bombardamenti su Zliten, mentre continuano gli
scontri tra i ribelli e i fedeli del colonnello Gheddafi alle porte di Misurata. Ieri
sera gli oppositori del rais sono riusciti anche ad entrare a Tripoli e a colpire
un palazzo presidenziale dove si trovavano membri del governo. Intanto la diplomazia
internazionale è al lavoro intorno al nodo-Gheddafi per trovare una soluzione alla
crisi libica. Oggi a Roma nuovo incontro tra il ministro egli Esteri Frattini e il
vicepresidente del Consiglio transitorio di Bengasi Ali al-Issawi. Intanto si continua
a discutere dell’uscita di scena di Gheddafi dalla Libia, con diverse soluzioni possibili:
trasferimento all’estero, passaggio di poteri restando nel Paese. E' rimasta, invece,
lettera morta il mandato di cattura emesso nei suoi confronti dal Tribunale penale
internazionale. Perché non è stato dato seguito all’iter attivato dal procuratore,
Luis Moreno Ocampo? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Vincenzo Buonomo,
docente di Diritto internazionale all’Università Lateranense:
R. - Resta
il problema dell’implementazione delle decisioni del procuratore, non soltanto nel
caso Gheddafi, bisogna subito ricordarlo, ma anche in altri casi, in altri Paesi africani:
penso per esempio al Sudan. Resta, quindi il problema dell’impegno dei singoli Stati
a dare attuazione alle indicazioni che provengono da istanze internazionali. Nel caso
specifico c’è anche una difficoltà che è subentrata nell’ultimo periodo e cioè organizzazioni
non governative, come Amnesty International o Human Rights Watch, hanno praticamente
messo in discussione i punti di partenza dello stesso mandato di cattura emesso dalla
corte, in particolare per quanto riguarda i fatti che sarebbero avvenuti a Zawaya,
nel corso della repressione fatta dalle truppe governative, e sulla cui base è stato
costruito il mandato. Dobbiamo ricordare che il mandato è stato emesso per crimini
commessi nel mese di febbraio e non per situazioni successive all’inizio dell’attacco
alla Libia.
D. - La maggior parte degli Stati africani sostiene che
questa incriminazione risponde esclusivamente agli interessi occidentali. Quanto una
frattura così forte può danneggiare il Tribunale penale internazionale, almeno dal
punto di vista della credibilità?
R. - Il Tribunale penale internazionale
al momento rappresenta un punto di arrivo di una riflessione fatta dalla Comunità
internazionale, secondo cui non ci può essere impunità neanche per capi di Stato,
capi di governo o responsabili degli Stati. Tra l’altro, nel caso specifico del mandato
nei riguardi di Gheddafi, è la prima volta che il Tribunale lo emette a conflitto
ancora in corso e non alla fine del conflitto. Certamente per quanto riguarda il caso
dell’Africa, basti citare l’esempio del Darfur con le accuse di genocidio rivolte
dal Tribunale internazionale al presidente del Sudan che sono rimaste lettera morta:
perché? Perché all’accusa del Tribunale, o meglio all’atto del Tribunale, dovrebbe
corrispondere l’impegno degli Stati a garantire l’arresto o, quanto meno, la delegittimazione
dal punto di vista politico di colui che è oggetto del mandato di cattura. Questo
- non solo in Africa, ma anche in altri contesti geografici - fino ad oggi non è mai
avvenuto.
D. - Su una cosa non ci sono dubbi: Gheddafi continua a dividere
la Comunità internazionale. Perché, secondo lei?
R. – Anzitutto, Gheddafi
divide un Paese, divide un popolo. Lì c’è una contrapposizione tra persone che vivono
in un contesto geograficamente già diviso, ma di fatto un contesto che dal punto di
vista sociologico poteva dirsi in qualche modo unito: Gheddafi già divide lì. Dall’altra
parte, divide la Comunità internazionale per interessi che non riguardano soltanto
la questione libica interna, ma riguardano anche la gestione di risorse, la condivisione
di risorse e poi soprattutto l’esposizione della Libia nei confronti di altri Paesi
con cui la Libia ha accordi di tipo commerciale o di tipo economico più generale.
(ma)