Afghanistan: iniziato il ritiro dei militari americani
E’ iniziato il graduale disimpegno degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Il primo contingente
di circa 650 soldati americani ha infatti cominciato le operazioni di ritiro. Secondo
il presidente statunitense Obama il calendario di ritorno in Patria - che prevede
la conclusione della missione nel 2014 - verrà rispettato a patto che la situazione
sul campo non cambi. Eppure sul terreno si susseguono gli attentati. Ce ne parla il
prof. Marco Lombardi, responsabile dei Progetti educativi in Afghanistan dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, intervistato da Giada Aquilino:
R. – Stiamo
vedendo due cose: da una parte, gli Stati Uniti che cominciano ad andarsene, gli italiani
che hanno detto che lo faranno e i francesi che hanno confermato il ritiro dal 2012;
dall’altra parte, militari morti e il fratello del presidente Karzai eliminato anch’egli.
Quindi, possiamo aspettarci sicuramente una recrudescenza della violenza degli “insurgents”
nei confronti delle truppe. C’è da dire poi che il fatto di forzare l’uscita dei militari
spesso dipende da ragioni di politica interna, che non riguardano – in realtà – il
teatro di guerra, e può essere vantaggioso per gli stessi insorti. In realtà, in questi
dieci anni si è fatto tanto ma ancora non abbastanza. Gli interventi nella costruzione
di scuole, case e ponti sono ottimi ma se non si riuscirà a lasciare il Paese con
una polizia ed un esercito che funzionino o con un governo un po’ meno corrotto, se
insomma non cambieremo queste cose in realtà sia gli edifici costruiti, sia i morti
che abbiamo subito serviranno purtroppo a poco.
D. – Ma l’aumento degli attentati
cosa vuole significare? Che i talebani e in generale la ribellione vogliono riguadagnare
il controllo totale del territorio?
R. – In realtà, gli “insurgents” sanno
che se le truppe internazionali non riescono a conquistare le montagne e le valli
dell’Afghanistan – e questo, come dicono gli americani, attraverso i cuori dei valligiani,
di coloro che vivono fuori dalle grandi città – loro hanno già vinto.
D. –
Tra attentati, scontri e danni collaterali, il conflitto in Afghanistan ha fatto registrare
nei primi sei mesi di quest’anno una cifra record di oltre 1.400 civili uccisi. Cosa
c’è da attendersi?
R. – E’ l’ultima battaglia, quella per la quale gli “insurgents”
faranno di tutto e di più. E’ vero che sono una minoranza dal punto di vista quantitativo,
ma saranno anche quelli che faranno più baccano – e in questo caso con gli AK47 e
con gli Ied (Improvised Explosive Devices) – attorno alle grandi città in Afghanistan.
Ogni luogo di assembramento, ogni venerdì potrà essere occasione…
D. – Questi
dieci anni di conflitto cosa lasciano al Paese?
R. – Lasciano la possibilità
di vedere che c’è un’altra vita, che è possibile vivere meglio, è possibile avere
madri che siano buone madri e che abbiano un’educazione, che abbiano coscienza di
sé e che insieme agli uomini lavorino per il loro Paese. Ed è quello che gli afghani
capiscono e comprendono, tranne quella piccola minoranza di “insusrgents” che, appunto,
costringe gli altri afghani a lavorare per loro. (gf)