L'Osservatore Romano: Intervista con Anna Maria Gentili, docente di Storia e Istituzioni
dei Paesi afro-asiatici alla facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna "Rischi
e incertezze sudanesi"(di Pierluigi Natalia) La nascita, lo
scorso 9 luglio, del Sud Sudan indipendente, ha lasciato molte questioni aperte, né
si annuncia facile la composizione degli irrisolti contrasti con Khartoum. Ne abbiamo
parlato con Anna Maria Gentili, docente di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici
alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, tra le maggiori studiose
italiane di problemi legati alla storia e allo sviluppo politico e istituzionale dei
Paesi africani.
Professoressa Gentili, l’indipendenza arriva dopo sei anni
e mezzo dall’Accordo generale di pace firmato il 9 gennaio 2005 dal presidente sudanese
Omar Hassam el Bashir e dall’allora leader del Sudan People’s Liberation Army (Spla),
John Garang. In questo periodo il Sud Sudan ha maturato politicamente la secessione
— il che tra l’altro non era di per sé l’obiettivo di Garang, morto poco dopo quell’accordo
— ma non sembra aver avviato né le condizioni di uno sviluppo sociale, né una prospettiva
di pluralismo politico. Lei è d’accordo? Sì, bisogna ricordare che quella del
Sud Sudan per l’autodeterminazione — non per la secessione — è una lotta pluridecennale
e che la sua maggior componente, rappresentata proprio dal movimento di Garang, voleva
creare un Sudan democratico, laico e unito. Del resto, il nazionalismo moderno, in
Sudan, era nato con la rivolta del 1920 guidata dagli ufficiali dell’esercito del
sud contro la politica di separazione tra nord e sud voluta dai colonialisti britannici.
Garang aveva negoziato l’accordo, puntando sull’opzione dell’unità in un sistema federale.
Ma questo avrebbe previsto una riforma fondamentale del sistema politico sudanese,
in senso più inclusivo. Non era una speranza solo sua: quando Garang si recò a Khartoum
dopo la firma dell’accordo, fu accolto da migliaia di persone entusiaste, non solo
suoi sostenitori sud sudanesi immigrati nella capitale, ma anche cittadini del nord
e di altre regioni che avanzavano le stesse richieste di autonomia. La secessione
è avvenuta anche in conseguenza delle mancate riforme, nel nord e nel sud, che hanno
radicalizzato il consenso alla divisione.
La nascita del Sud Sudan è la
prima violazione, dopo quella dell’Eritrea, del principio di inviolabilità dei confini
dichiarato prima dall’Organizzazione dell’unità africana e poi dall’Unione africana.
Potrebbe costituire un precedente per altre situazioni potenzialmente secessioniste?
Penso per esempio al Somaliland o l’Ogaden nel Corno d’Africa, ma anche ad altri contesti
sudanesi. Per il Somaliland posso essere d’accordo: si rafforzerà una richiesta
di riconoscimento internazionale dell’indipendenza. Invece, per le regioni sudanesi
da tempo in conflitto, dal Darfur, all’Abyei, al Kordofan meridionale, al Nilo Blu,
non vedo questa possibilità. Del resto, in tutte queste situazioni solo qualche minoranza
ha messo la secessione tra i propri obiettivi. I diversi gruppi ribelli hanno invece
sempre combattuto contro la mancanza di riforme del Governo sudanese, soprattutto
dopo la presa del potere da parte di el Bashir. In risposta, questi ha accentuato
la politica di divide et impera per mantenere il controllo, finanziando la
corruzione economica e politica.
Secondo alcuni osservatori, il Sud Sudan
potrebbe diventare il sesto Stato della nuova Comunità dell’Africa Orientale formata
da Burundi, Kenya, Rwanda, Tanzania e Uganda. Questo potrebbe accentuare la divisione
tra l’Africa bianca e quella subsahariana e avere conseguenze su questioni regionali
complesse, come per esempio quella della ripartizione delle acque del Nilo tra i Paesi
del bacino? Oppure resterà prevalente il rapporto con Khartoum, con i nodi cruciali
delle risorse petrolifere e degli oleodotti? Ci sarà certamente un rafforzamento
dei rapporti tra il Sud Sudan e i Paesi della regione. Tuttavia, per il nuovo Stato
la questione prioritaria resta quella dei rapporti con Khartoum, anche perché l’integrazione
tra le popolazioni del nord e del sud del Sudan è molto maggiore di quanto di solito
non si ritenga. Basti pensare alla presenza di rifugiati e di migranti in entrambe
le parti. Questo rapporto stretto avrà influenza sul piano delle alleanze politiche,
se non altro perché il cambiamento del Sud Sudan dipenderà anche da un analogo cambiamento
— auspicabili, ma certo non in atto — del regime di Khartoum. Bisogna poi ricordare
la questione dei confini, molto delicata non solo per il controllo delle risorse petrolifere
e degli oleodotti, ma anche per la secolare presenza di popolazioni dedite alla pastorizia
e che hanno relazioni complesse con le popolazioni sedentarie.
Parliamo
di regioni ad alto rischio di instabilità, come dimostrano gli scontri armati ancora
nell’ultimo periodo. Sì, ci sono state violenze sistematiche, anche su base
etnica, intimidazioni, attacchi ai caschi blu dell’Onu. Sono state persino di nuovo
minate le strade che erano state bonificate dagli ordigni dell’epoca della guerra
civile. Questo dimostra che il problema principale da risolvere è quello dei rapporti
con Khartoum, anche se non è negabile il rilievo di altre questione, come quella della
ripartizione dell’acqua del Nilo alla quale lei faceva riferimento. Ancora più rilevante
è la questione dei diritti dei cittadini. Di certo va impedito che si ripeta quanto
accaduto all’epoca dell’indipendenza dell’Eritrea, accompagnata da vere e proprie
deportazioni di migliaia di eritrei nati in Etiopia.
Sempre in riferimento
ai rapporti con Khartoum, non sembrano da meno i problemi che il nuovo Stato continua
ad avere al suo interno. Sì, a partire da quello del disarmo delle milizie,
una dozzina solo nello Stato di Unity, che sono appoggiate dai settori più radicali
del Governo di Khartoum. Certo, si tratta di milizie con proprie agende locali, ma
sarebbe velleitario pensare di risolvere la questione senza un accordo con Khartoum.
A proposito di posizioni radicali: el Bashir ha detto di voler imporre
la sharia, la legge islamica, in tutto il Sudan. Quali rischi ci sono per le minoranze
religiose? Questa è la minaccia che incombe. Qualcuno sostiene che el Bashir
abbia ottenuto un vero e proprio scambio tra l’indipendenza del Sud Sudan e la possibilità
di imporre in tutto il resto del Paese una nuova costituzione radicalmente islamica,
al posto di quella in vigore che lascia almeno in parte autonomia alle diverse entità
etniche e religiose. Oggi a Khartoum c’è un conflitto tra chi vuole la sharia e chi
no. Tra i primi, almeno stando alle dichiarazioni, c’è lo stesso el Bashir, ma probabilmente
anche in questo caso il presidente sudanese sta seguendo il suo solito schema di minacciare
per poi arrivare ad accomodamenti da posizioni di forza. Si tratta, comunque, di una
questione grave: in molte regioni sudanesi, accanto alla maggioranza musulmana — peraltro
non tutta favorevole alla sharia come legge dello Stato — vivono minoranze cristiane
che rischiano di ritrovarsi schiacciate dal regime.
Tornando in Sud Sudan,
c’è l’impressione che le nuove autorità di Juba non si discostino da pratiche diffuse
in molte parti dell’Africa e che sembrano configurare una sorta di neocolonialismo,
per esempio il cosiddetto Land Grabbing, la cessione di terre coltivabili agli stranieri. Di
forme di neocolonialismo in Africa, dopo le indipendenze, ce ne sono state tante.
Lei ne sottolinea una meno nota di altre. Tutti si concentrano sul petrolio e pochi
esaminano a fondo cosa accade sulla questione delle risorse nell’epoca della globalizzazione.
Si è creata una capacità di distribuire potere ai propri clientes attraverso
il finanziamento internazionale, in Sudan soprattutto della finanza islamica. In Sud
Sudan ora sta accadendo lo stesso: vasti terreni sono dati in uso a imprese straniere,
prevalentemente statunitensi, ma non solo, con la copertura di società locali assai
poco trasparenti. È una politica cinica che sotto il velo di un presunto sviluppo
priva le popolazioni contadine delle loro risorse, trasformandole in proletari senza
diritti. Tra l’altro, è uno dei motivi dell’aumento dell’emigrazione. In questo la
comunità internazionale ha molte responsabilità.