Friuli: mostra sull'Aldilà, ultimo mistero della vita
“Aldilà. L’ultimo mistero”: è dedicata a un tema, quello della vita oltre la morte,
che da sempre ha interrogato l’uomo, la mostra allestita a Illegio, piccola località
di montagna in provincia di Udine. Una sessantina le opere esposte, tra cui molti
capolavori: pitture su tavola lignea, dipinti su tela, sculture, altari e oreficeria,
papiri egizi, lapidi paleocristiane e vasi etruschi, per ripercorrere, dal primo millennio
a.C. al XX secolo, le paure e le speranze dell’umanità, fino alla rivelazione contenuta
nel Vangelo, la Risurrezione di Cristo. La mostra, promossa dal Comitato di San Floriano,
espressione della comunità cristiana di Illegio, rimarrà aperta fino al 30 ottobre
prossimo. Adriana Masotti ne ha intervistato il curatore, don Alessio Geretti.
R. – Il tema
certamente affascina: è un mistero che da sempre interroga l’uomo, da quando esiste
l’uomo sulla faccia della terra, insieme alle opere d’arte – per così dire – esistono
le sepolture dei defunti, circondate di segni simbolici, di oggetti e di tratti di
bellezza che significano l’intuizione che noi siamo più che solo materia. La mostra
di Illegio, attraverso diversi capitoli, ci permette di vedere che tutte le culture
hanno avuto alcune intuizioni molto, molto vicine. Ci sono state anche notevoli differenze:
il cristianesimo, con la parola chiara e definitiva che è la Risurrezione di Cristo
e la sua rivelazione, rompe gli indugi su tutta una serie di incertezze che il cuore
degli uomini e le civiltà dei popoli si portavano dentro: accanto alla speranza, anche
una certa inquietudine. Inquietudine che solo la luce di Cristo Risorto può fugare.
Per questo, la mostra comincia con la Risurrezione di Gesù, e poi va indietro a rievocare
in che modo le altre civiltà precedenti al cristianesimo hanno immaginato l’Aldilà.
D.
– La mostra è organizzata in sei sezioni, tra cui quella dedicata all’arte contemporanea.
Ci vuol dire qualcosa di questa?
R. – Ci sono poche ma significative
testimonianze di come il Novecento, un tempo nel quale sembra che l’Occidente divorzi
dal Cristianesimo, si deve comunque imbattere nel problema della morte ma debba anche
per forza ritrovare una qualche via di speranza. Ci sono ad esempio due magnifici
disegni di Alfred Kubin, uno dei più grandi maestri del disegno del Novecento, che
sono i due commenti immediatamente successivi alla fine del primo e del secondo conflitto
mondiale. Due commenti che mettono in evidenza come la morte incomba su tutti e, per
quanto evoluti e per quanto spensierati si possa essere, dobbiamo fare i conti con
la questione della fine che fatalmente ci pone la questione del fine: se c’è qualche
cosa per cui valga la pena di vivere. In questi due disegni si vede una morte quasi
esausta, tanto le abbiamo dato da fare con la guerra, aggrappata ad una roccia che
poi sarà la sua stessa tomba, e sullo sfondo un mare scuro e rossastro di sangue e
di lutto, quasi a dire: già la morte ci porterà via tutti; non sarebbe il caso di
evitare di collaborare con il suo sporco lavoro? E’ una domanda che Kubin ci rivolge,
che forse riecheggia quello che Gino Severini – uno dei maestri del futurismo italiano
– racconta nella sua “Danza macabra”, un quadro quasi arlecchinesco perché fatto di
tanti rombi in movimento e coloratissimi che danno il senso della vita, della gioia
… Ma in controluce, si intravede lo scheletro ballerino della morte, come a dire:
va bene, siamo in un momento di grande euforia, ma il problema non è risolto. Alcuni
artisti del Novecento, di cui abbiamo testimonianza nella mostra, tornano al Vangelo
come nel caso di Pietro Annigoni, che dipinge la risurrezione di Lazzaro a metà tra
il lutto e la speranza. Come, d’altra parte, Francesco Messina mostra una pietà toccante
in cui il senso del dolore sul corpo di Cristo è attenuato, ma è elegantemente sottolineato
quello di sua Madre che è come se ci dicesse: so anch’io cosa vuol dire aver perso
un figlio.
D. – Circa 60 le opere esposte. Qual è la loro provenienza?
R.
– La gran parte delle opere proviene dall’Italia o dai Musei Vaticani, comunque da
sedi rilevanti come ad esempio la Galleria degli Uffizi, la Gallerie dell’Accademia
di Venezie. Altre vengono dall’estero, ad esempio da Madrid oppure dal Museo nazionale
di Wroclaw, in Polonia, dal Louvre …
D. – Questa non è la prima mostra
allestita a Illegio, un piccolo paese di montagna. Angeli, apocalisse, genesi, apocrifi,
sono alcuni dei temi delle esposizioni precedenti. Insomma, un’esperienza che si è
arricchita nel tempo e che ha ormai un peso. Qual è la lettura che lei da di questa
esperienza?
R. – Prima di tutto, in un piccolo borgo alpino di 350 persone,
vengono ogni anno 35 mila visitatori affezionati, e questo vuol dire che ovunque si
può essere un centro significativo, non necessariamente nelle grandi metropoli. La
seconda cosa che bisogna dire è che l’uomo di oggi ha bisogno di ritrovare dei sentieri
che lo conducano a fare il viaggio più arduo di tutti, cioè il viaggio dalla superficialità
all’interiorità. E salire la strada che porta ad Illegio, immersi in un paesaggio
incantato e in ritmi che disintossicano dal rumore, significa riscoprire che c’è qui
accanto un mondo che abbiamo trascurato e che però è indispensabile per avere il giusto
respiro mentre lavoriamo in questo mondo ordinario. Per molti è una specie di terapia
dell’anima che fa ripartire, anche in persone non più abituate a frequentare la Chiesa,
un discorso spirituale che da tempo era accantonato o sopito, ma non completamente
spento. (gf)