Mons. Mazzolari: il popolo del Sud Sudan orgoglioso di essere una nuova nazione
“Il Sud Sudan è orgoglioso di essere una nuova nazione ed è pronto a conquistare la
propria identità nel mondo”. Queste le parole di mons. Cesare Mazzolari, vescovo di
Rumbek in Sud Sudan e da 30 anni in missione nella zona, in una dichiarazione alla
Cesar Onlus, alla vigilia della proclamazione ufficiale dell’indipendenza dello Stato,
sabato prossimo a Juba. Un auspicio per il futuro del Sud Sudan arriva anche dai superiori
generali dei missionari e delle missionarie di San Daniele Comboni, padre Enrique
Sánchez González e suor Luzia Premoli: in un messaggio diffuso dall’agenzia Misna,
si augurano che “la cultura della pace e l’impegno per la riconciliazione” diano “slancio
e forza ad una ricerca paziente e non violenta in favore della giustizia e del bene
comune”. L’appuntamento del 9 luglio - a cui prenderà parte anche il presidente del
Sudan, Al Bashir, su cui pende un mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale
per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur - arriva dopo un lungo
periodo di transizione previsto dagli accordi di pace del 2005, che posero fine a
una sanguinosa guerra civile tra parte settentrionale e parte meridionale del Sudan.
Ce ne parla Paola Vacchina, vice presidente delle Acli, intervistata da Giada
Aquilino nell’ambito delle attività della Campagna italiana per il Sudan, di cui
le Acli fanno parte:
R. - Il prossimo
9 luglio ci saranno i festeggiamenti per la costituzione del nuovo Stato indipendente,
il Sud Sudan, e questo è un passaggio importante rispetto al consolidamento della
pace, che è stata firmata nel 2005. Però le insidie rispetto alla situazione sono
ancora grosse, sia nel Sudan del nord sia nel Sud Sudan. Quindi, l’attenzione su questa
situazione non deve calare.
D. - Ci sono delle zone, come l’Abyei e
il Sud Kordofan, dove la situazione non è affatto pacificata. Qual è il vostro appello?
R.
- L’appello è proprio alle organizzazioni internazionali a continuare a facilitare
gli incontri, gli scambi, facendo tacere le armi che invece, purtroppo, si sono fatte
nuovamente sentire in tutte queste zone, in particolare, di confine.
D.
- Quale è stato il ruolo della comunità internazionale in questi anni?
D.
- Credo che sia stato molto importante, perché l’attenzione internazionale ha permesso
di non abbandonare le popolazioni civili. C’è stato un movimento rilevante di aiuti
umanitari e di progetti che hanno favorito la costruzione di legami tra le popolazioni,
tra le diverse etnie, e poi la possibilità di affrontare anche tutte le emergenze
- sia quelle umanitarie sia quelle della vita ordinaria - di queste persone in situazioni
difficili, già nel periodo della guerra e poi dopo la firma del trattato di pace.
Naturalmente, c’è stato anche un ruolo molto importante dal punto di vista diplomatico,
che ha portato alla costituzione del nuovo Stato. Questa però non può essere vista
come un punto di arrivo: è una fase del processo, ma non può essere considerata come
un punto finale perché altrimenti si lascerebbero riemergere tensioni, conflitti locali,
situazioni di difficoltà proprio nella gestione della transizione.
D.
- Quali sono quindi i primi problemi da risolvere in questo nuovo Stato?
R.
- Bisogna sostenere l’affermazione di un percorso che porti realmente alla partecipazione
dei cittadini di tutte le etnie alla vita politica, alla vita del Paese: vanno riconosciute
tutte le componenti della società. Il rischio in queste situazioni è sempre quello
che possano riaccendersi dei focolai di ribellione, di lotta, per affermare progetti
di parte e che non ci sia invece una partecipazione complessiva alla costruzione di
un futuro positivo per tutto il Paese. L’obietto è quindi di costruire un’unità, un
processo unitario che sia realmente democratico e rispettoso di tutte le componenti
della società. (ma)